Written by Francesco Lanza
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I-X
XI-XX
XXI-XXX
XXXI-XL
XLI-L
LI-LX
LXI-LXX
LXXI-LXXX
LXXXI-XC
XCI-C
CI-CVI
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I-X
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La lunga
II brontese maritava la figliola, ch’era lunga e dritta come una pala di forno. Ma arrivati alla chiesa, la zita non poteva passare, che la porta era bassa; e non sapevan come fare col corteo dietro che s’affollava e il prete dentro con la stola addosso che faceva prescia.
– Largo, signori miei! – gridò il brontese – che prima deve passare la figlia! – e lui stesso la spingeva perché passasse, ma le restava tutta la testa di fuori, lunga e stecchita come avesse inghiottito uno spiedo.
Allora, chi voleva buttare giù il cornicione, chi sbassare lo scalino, chi tagliare la testa alla zita e riappiccicargliela dentro; ma non facevano nulla.
In quella, si trovò a passare l’adernese ch’era a Bronte per gli affari suoi, e sentita la cosa si fece avanti:
– Che mi date, se la faccio passare io?
E il padre:
– Se la fai passare, quattro montoni ti do, quattro pecorelle, quattro forme di cacio, e quattro pezze di ricotta ti do, e tu fammi passare la figlia!
L’adernese alzò il braccio e lasciò cadere come venne una manata sul collo alla zita: quella calò la testa e passò.
– Bravo l’adernese! – gridarono tutti – che ha fatto passare la lunga senza tagliargli la testa.
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L’aidonese
Un dì l’aidonese litigò col proprio asino, che non voleva saltare un fosso; e poiché quello inarcandosi gli parava la testa, egli accettò la sfida e la fecero a testate.
Dai tu che do io, la battaglia durò a lungo, e infine l’asino dovette dichiararsi vinto.
– Ah, minchione! – gridò ansante l’aidonese, tastandosi la zucca – tu puoi vincermi benissimo per giudizio, ma in quanto a testa non me la fai: l’ho più dura della tua.
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La merla
Una volta il barrafranchese se n’era ito a caccia, col trombone alla sgherra; e dopo lungo girare per monti e per valli capitò sotto una ficaia mora, vasta e frondosa; e c’era in cima nel folto un fico come una melanzana.
Al muovere delle foglie pareva che quello spiccasse il volo come una merla, e quindi ristava; e poi daccapo, sicché si vedeva e svedeva, senza mai si svelasse del tutto.
Col batticuore, il barrafranchese spianò l’arma; ma non essendone mai certo, prima gridò:
– O tu, sei tu fico o se’ merla, che tiro o non tiro?
E quello zitto. E lui, più forte:
– O tu, ti dico, sei tu fico o se’ merla, che tiro o non tiro?
E quello zitto.
Allora il barrafrancese chiuse gli occhi, e premendo il grilletto gridò:
– O fico o merla, tirritùmpete ’n terra!
E della trombonata rintronò la valle.
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Il prizzitano
II prizzitano, non sapendo come sbarcare il lunario a casa sua, se n’andò fuori via, di là dal mare; ma vedendo ch’era peggio di prima, pensò di tornare, e per pietà s’ebbe un posto sur un naviglio.
Il viaggio era lungo, e il tempo nemico; e lui poveretto all’acqua e al vento intirizziva come una foglia. Or finalmente una notte che il freddo era più crudo, avvistarono la costa, e la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere.
– Ah – esclamò egli allora, stendendo le mani di là per scaldarsi – ora sì che a questo fuoco mi sento ricreare!
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Il licodiano
Tant’era ladro il licodiano che, non avendo a chi rubare, rubava a sé stesso, e a chi non aveva nulla rubava la vista degli occhi, mettendoglisi avanti.
Or pentitesi della sua vita, andò a confessarsi; e compunto e contrito snocciolava tutte le sue prodezze, che non finivano più.
Arrivati alla fine, il prete alzò la mano per assolverlo, e in quella lui, che gliela adocchiava sin dal principio, gli tolse lesto la stola di dosso, e se la ficcò in tasca .
E prima d’andarsene:
– O della stola non m’assolvete?
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I due mazzarinesi
I due mazzarinesi badavano all’orto, e il pa’ riposava al pagliaio. Or uno della partita contava a voce forte i cocomeri da portare in piazza; e l’altro:
– O Pe’ – gli gridò a un punto – mentr’hai la bocca aperta, chiama il pa’!
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L’Angelo di Dio
Per Sant’Alessandro, il barrafranchese si mise sulla mula e se n’andò a vedere il suo campo come cresceva. Già spigava, più alto d’un uomo, e a quel venticello faceva le onde come il mare, fitto e lucente.
Non c’era uno più contento di lui; e stava a bocca aperta a mirarlo, senza pensare al tempo. Si fece notte, ed era ancora là che non poteva spicciarsi da quel trionfo; e come spuntò la luna si mise sul colle per guardarlo meglio, e andava dicendo a voce forte:
– Vuoi vedere, così bello com’è che quest’anno va più valoroso che mai, e mi fa sei salme di frumento più dell’oro?
Nel mentre, il chiù che s’era assettato sull’olmo, aprì il becco e gli rispose:
– Più!
– Per Sant’Alessandro – gridò lui con gioia – quest’è l’Angelo di Dio che mi risponde, e dice che m’ha da fare di più. E quanto allora, otto salme?
– Più! Più! – rispose quello.
– E bravo l’Angelo di Dio! – diceva lui. – E quanto allora, che mi conforta: dieci?
– Più!
– Dodici?
– Più!
E così restò tutta la notte, lui a crescere e l’altro a fare più più.
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Il pietraperzese
Al pietraperzese era morto il pa’; e tutti lo piangevano a gran voce. Lo vestirono, lo misero nel cataletto, e diedero al pierzese da tenere la candela; e lui guardava con la bocca aperta e gli occhi asciutti, senza ài né bai.
Uno lo tirò per la manica:
– Perché non piangi? Non vedi ch’è morto tuo pa’?
E lui:
– O come posso piangere, che ho la candela in mano?
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Il compare nel corbello
Una notte che il troinese non doveva tornare a casa, la moglie si divertiva col compare. Ma a un certo punto, che è che non è, sentono bussare alla porta, ed era il marito che tornava di campagna. La donna si mise le mani fra i capelli:
– E ora, compare mio, come facciamo?
– Sentite – disse il compare – mettetemi dentro il corbello e appendetemi al tetto.
E così fecero.
Il troinese entrò e si mise a mangiare a suo comodo; e la moglie ogni tanto levava gli occhi al soffitto, sospirando.
D’un tratto la corda per il troppo peso si ruppe, e il corbello cascò giù con dentro il compare:
– Oh, compare mio! – gridò atterrito il marito – e chi vi porta qua?
– Mi manda – rispose pronto il compare – San Michele Arcangelo che vuole imprestato un corbello di paglia.
Il troinese, tutto lieto per la bella congiuntura, gli riempì subito il corbello di paglia, e il compare se ne andò via per la porta, con tanti saluti per San Michele Arcangelo.
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Le gambe dei lercaresi
I lercaresi, essendo in festa, se ne andarono in campagna a prendersi spasso; e buttatisi a frotta su di un prato, mangiarono, bevvero e si sdraiarono alla rinfusa come loro meglio piacque.
Ma al punto d’alzarsi, al vedere tutte quelle gambe mischiate, di maschi e femmine, ognuno nella confusione non conosceva più le proprie, e facevano a gara:
– O quali sono le mie? E le tue? E cotesta di chi è? Ahi, che a me ne manca una!
E sono ancora là che se le cercano.
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XI-XX
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Il catanese
Il catanese, andatosene la mattina per pescare, trovò che al mare c’era la nebbia; e non sapeva che farsi.
– Mamma mia – andava dicendo – che c’è la nebbia, e non so dove buttare le reti, e perdo il guadagno.
E la moglie:
– Sentite che facciamo, marito mio; con lo staccio buttiamola di là alla costa, che se ne vada alla piana.
E così fecero tutt’e due con lo staccio come fosse farina, e quando la nebbia se ne fu andata, dicevano soddisfatti:
– Lo avete visto, che se non era per lo staccio sarebbe ancora qua?
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Il mazzarinese
Il mazzarinese teneva in un canto un sacco col muso legato fitto. Ogni tanto l’apriva con cura, appena il tempo di fiatarci dentro e lo richiudeva in furia, più fitto di prima.
– O che fate? – gli domandarono una volta.
E lui:
– Metto in serbo il fiato per quando mi manca.
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Il calabrese
Il calabrese, gli rubarono ciò che non aveva, e afferrato uno schioppo inseguiva il malcapitato; e gli andava gridando dietro:
– O tu, se tu corri ti sparo, se ti fermi t’accoltello, se ti butti nel pozzo ti perdono.
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I capestri
Il vallolmese, essendo in campagna, lasciò libere le mule a pascere, e avevano i capestri comprati nuovi la mattina.
Ma quando andò per raccoglierle, non le trovò più; e invano le chiamava:
– Àhu, àhu, àhu!
Cerca cerca, fu tempo perso, e buttatosi a terra, gridava a’ quattro venti:
– Ohimé, che ho perso le mule; e avevano i capestri nuovi della festa, e più belli non ce n’erano qua e altrove! Ed erano infioccati, e lavorati con valore! Ohimé, che ho perso i capestri!
Quando gli parve d’essersi sfogato abbastanza, si rimise in cammino e, chiunque incontrava, gli domandava con affanno:
– O ditemi, amico mio, avete visti i capestri delle mie mule, ch’erano nuovi nuovi?
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I ferri ai piedi
Due caropìpani, di professione ladri, pensarono di morire; e buttatisi sul letto non davan più segno di vita. Gettaron loro le strida, li vestirono, li misero nel cataletto e fi portarono per morti in chiesa. Ma la notte, quelli buttarono all’aria i coperchi, e più vivi di prima si diedero a saccheggiare ogni cosa; e rotte le sbarre scapparono via per le lunette. La mattina, aperta la chiesa, non si trovarono più i morti né le cose di prezzo, e lo scandalo fu grande.
– Qua bisogna provvedere – gridarono i gabbati – che i morti non son morti e fan cose da vivi; – e radunato in fretta il consiglio, dopo molto sputare fu finalmente gettato a suon dì tamburi e di trombe questo bando:
– Caropipani, da oggi in poi, chi vuol morire ha da pensarci due volte; e chi non è sicuro d’esser morto non muoia, che quelli che son tali verran ferrati ai piedi come muli!
E d’allora in poi, così fecero; e di caropipani non morì più alcuno che non fosse veramente morto.
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La pernice del raddusano
Una volta che il raddusano stava con lo schioppo fra le gambe aspettando le mosche, vide volarsi incontro una pernice.
Come prima gli venne lasciò partire il colpo, e quella cadde; ma corso a prenderla, invece di una pernice era un’upupa.
Andato a casa, se la mangiò come pernice; e dopo, tutto lieto del bel colpo, lo contava in piazza.
– Lo sapete? Ho ammazzato una pernice che era anche un’upupa.
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La chiesa di Bronte
I brontesi crescevano come conigli, e la chiesa, la domenica, non bastava più. Quelli che restavan fuori ogni volta, misero le lagnanze in carta bollata e le portarono al sindaco perché ci pensasse.
Il sindaco radunò subito il consiglio; e si misero a parlare del modo e della maniera di allargare la chiesa quant’era il popolo.
Ma chi ne diceva una e chi un’altra: chi di buttar giù quella vecchia e di farne sopra una nuova più grande; chi di tirare più in là le mura con tutte le fondamenta e di farci poi la giunta; ma la spesa era assai e nessuno voleva saperne.
Finalmente il più anziano s’alzò, e spurgatosi nel silenzio di tutti così parlò:
– Signori miei! Il fatto è di allargare la chiesa senza guastarla e toglierla dal posto dov’è. Perciò io dico che il danno non deve accrescere le spese, e le spese non devono accrescere il danno. Dunque, facciamo dei buchi sul tetto, e chiuse tutte le porte, riempiamola di fave finché non ce ne va più una. Fornita l’opra, mettiamoci acqua a non finire, e se quella del paese non basta mandiamola a prendere fuori, e come la chiesa è piena fino in bocca, chiudiamo i buchi. Ne avverrà che l’acqua gonfierà le fave, e le fave gonfiandosi allargheranno la chiesa, sicché potremo entrarci tutti comodamente, senza danno e senza spese.
Come finì, tutti gli batterono le mani, e chi gridava: – viva! – e chi: – bravo! – e lo portaron sulle spalle per le vie del paese.
Subito per ordine del sindaco cominciarono i lavori. Fecero dei buchi nel tetto, e vuotata la chiesa dei santi e di quanto loro s’apparteneva, chiusero le porte a chiave. Quindi a salme buttavano dentro fave, e poiché quelle del paese non bastavano ne mandarono a comprare per ogni dove. Quando non ce ne andò più neppure una, con giare e quartare, boccali e tinozze, ci versarono acqua; e come spuntò di sopra chiusero i buchi, aspettando che ogni cosa avesse il suo effetto: che l’acqua gonfiasse le fave e le fave allargassero la chiesa.
Passato il tempo che gli esperti ritennero giusto, andarono per aprire le porte, ma essendo le ante di dentro, fu necessario buttarle giù con l’accetta. Le fave intanto per l’acquiccio e la muffa erano diventate una massa sola, dura e fitta come una muraglia, e ci volle il picco e la pala.
Finalmente, come a Dio piacque, la chiesa fu sgombra; e rimessala in ordine, primi ci entrarono il sindaco con la sciarpa e il consiglio col più anziano in testa; e, mentre le campane sonavano a stormo, tutta la giravano con meraviglia e soddisfazione vedendola più grande.
– Ah, com’è larga! – facevano – Ora sì che abbiamo una chiesa degna di Bronte.
Il popolo dietro faceva lo stesso, guardando con la bocca aperta e toccando i muri per vedere quant’erano più in là:
– Ah, quant’è più larga! È due volte di prima. Ora sì che ci entriamo tutti, senza che nessuno debba restare fuori.
E la domenica infatti, i brontesi ci entrarono tutti, e fuori non ne restò alcuno.
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Le candele dei nicosiani
Per la festa di San Nicolò, dissero i nicosiani:
– Dobbiamo fare una festa che non abbia la pari, e il chiaro in chiesa ha da vincere il sole.
Per questo chiaro dunque, mandarono per ogni dove a comprar candele; ma come i carri tornavano, cominciò a diluviare, e le candele arrivarono inzuppate come pulcini.
La confusione fu grande; e poiché il tempo stringeva, non sapevan che fare.
– Vedrete – andavan dicendo – che il sole in chiesa non lo possiamo fare, che le candele inzuppate non allumano e prima che s’asciughino col freddo che c’è, passata è la festa.
Allora si radunarono in fretta per provvedere al da fare, e ognuno diceva la sua. Finalmente, il rettore si fece avanti, e parlò:
– Signori miei, vediamo se vi piace. Meglio non c’è, io dico, che riscaldare tutti i forni del comune e metterci dentro le candele ad asciugare, e subito la cosa è fatta.
– Bravo, bravo! – gridarono tutti; e senza perdere tempo misero mano all’opera.
Ognuno apprestava a gara paglia e fascine; e:
– Fuoco fuoco – facevano ai fornai – che più fuoco c’è, prima s’asciugano!
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I tre calabresi
Tre calabresi, non sapendo come sbarcare la vita in Calabria, pensarono di portare un carico di cipolle in Sicilia; e riempita una barca si misero in mare.
Or, a metà dello stretto, una cipolla ruzzolò dal mucchio, e cadde in acqua; e quelli:
Ferma, ferma, per Cristo! – gridarono insieme – che una cipolla è caduta, e se non la riprendiamo s’è persa.
Posati i remi, Lino ch’era il più ardito della partita, si tolse lesto brache e farsetti, e buttandosi fece:
– Aspettatemi qua, che corro a raggiungerla e ve la riporto.
Subito non si vide più e aspetta ora aspetta poi non tornava, né lui né la cipolla; e gli altri, che la sapevan lunga, si mangiarono la foglia.
– Vuoi vedere – fece uno dei due – che il compagnello s’è presa la cipolla ch’era di tutt’e tre, e per averla lui solo, se ne scappa via?
E l’altro:
– S’è questo, per Cristo, io l’acconcio il malnato, e prima che fai amen te lo riporto qua, con la cipolla in mano.– Così dicendo, si tolse anche lui farsetto e brache, e si buttò a pesce, che non si vide più.
Il tempo passava, e nessuno tornava; e l’ultimo:
– Ah, per Cristo, i compagnelli si son messi d’accordo per gabbarmi, e si son presa la mia parte di cipolla. Ma aspetta, che ci vo io e gli do la giunta.
Senza pensarci due volte, lasciò dov’era la barca che l’aspettasse, e si buttò furioso; e anche lui non si vide più, che cerca sempre i compagnelli in fondo allo stretto.
E fu così che tre calabresi si persero per una cipolla.
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Il grembiule della pierzese
La pierzese aveva addosso un grembiule che toppe ce n’erano una sull’altra da non contarsi più, e a cento colori; sicché divenuto spesso del doppio pareva invece la pannicciata dell’asino.
Il marito, che glielo sapeva dal dì delle nozze, non poteva vederglielo più in mano per rattopparselo, che non le bastavano mai pezze e le si sf aldava da ogni parte; e come venne la fiera gliene comprò uno nuovo.
Quella a vederlo non sapeva quanto lodarlo, ch’era a fiorami; e intanto faceva:
– Che belle toppe si possono tagliare di qua per il mio grembiule sciupato, e così posso mettermelo anche per la festa.
E dato di mano alle forbici si mise a tagliare di là le toppe per quello vecchio; e a lavoro finito, lo mostrava tutta contenta al marito:
– Guardate, marito mio, com’è ora rappezzato il mio grembiule, che pare nuovo nuovo.
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XXI-XXX
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Le lumachelle
Il giorno di San Rocco, il buterese si fece cuocere un moggio di lumachelle, e se le mise tutte davanti. L’una dopo l’altra, se le succiò fino all’ultima non lasciandoci neppure i culi, e buttava i gusci nel moggio.
Quando finì, s’avvide che il moggio s’era ripieno di nuovo, e faceva meravigliato:
– Te’ te’, quant’è miracoloso San Roccuccio: le lumachelle piene erano un moggio e un moggio sono vuote!
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La luna del barrafranchese
Alla stagione, il barrafranchese caricava paglia; e com’era sera andò ad abbeverare il ciuco alla fontana. In cielo c’era una luna valorosa, che luceva come giorno chiaro, e si specchiava tutta in fondo all’acqua, che pareva un timballo d’argento.
L’asino si mise a bere, ch’era assetato; e lui:
– Ohi, ciuco, beviti l’acqua quanta ne vuoi, ma non ti bere la luna che m’ha da far lume la notte, meglio della lumera, quando riempio i retoni di paglia.
L’asino zitto, continuando a bere; e intanto, come c’era mutazione d’aria, una nuvola lesta si mise dinanzi la luna e la nascose tutta, che sparve.
Non vedendola più in fondo all’acqua, il barrafranchese se lo prese il diavolo, e afferrato il ciuco alla gola, gli faceva:
– T’avevo detto di non bere la luna e tu l’hai bevuta, ciuco di non so che. Vomita subito la luna, che t’ammazzo.
L’asino scrollava il capo per liberarsi e lui, stringendolo più forte:
– T’ho detto vomita la luna, che t’ammazzo.
L’asino allora a sparare calci: e lui presa che c’era una pietra, cominciò a dargliene sulla testa come un dannato:
– Vomita la luna che mi bisogna, o t’ammazzo.
Tante gliene diede che l’ammazzò davvero; e mentre l’asino stirava le cuoia, la nuvola si tolse d’innanzi alla luna, e quella subito ritornò in fondo all’acqua, bella lucente; e lui tutto soddisfatto:
– Ah, l’hai intesa la ragione? Ben ti stia, che sei morto come un ciuco che sei. Di te, io n’ho quanti ne voglio alla fiera, ma la luna era una, e se se non la vomitavi, i’ restavo al buio ora che n’ho di bisogno.
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Il barrafranchese e il re
Il barrafranchese, ch’era ingegnoso come il barrafranchese che era, se ne andò dal re, e gli fece:
– Maestà, grazia.
E il re:
– O che grazia vuo’?
– Fiocco a palla alla berretta, che così la domenica fo il malandrino alla piazza.
– Ti sia concessa; e tu locco come prima.
E lui:
– Gnorsì, basta che la grazia è data.
Ci tornò poi, e gli fece:
– Maestà, grazia.
– O che grazia vuo’?
– Il quartuccio, quartara.
E il re:
– Ti sia concessa; e il prezzo come vogliono i tavernieri.
E lui:
– E sia, basta che la grazia è data.
Ci tornò ancora, e gli fece:
– Maestà, grazia.
– O che grazia vuo’?
– La galera sul prato come la mandra tutta attorniata di spinepulci, e i carcerieri orbi e cionchi.
E il re:
– Ti sia concessa; e tu legato al palo.
E lui:
– Mai, che cotesto non può essere!
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La luna e il piazzese
Due mazzarinesi, ’mbriachi fino alle nasche come scimmie, uscirono dalla taverna ch’era notte; e per ragionarla meglio se n’andavano a braccetto a piacere dei piedi, un passo avanti e due indietro, che parevano a mare.
A un punto, sul campanile della chiesa si levò la luna, tonda come una ruota e tutta raggiante; e quelli, che gli pesava il vino, restarono allucinati a mirarla.
Uno della partita, ch’era il più cotto, gli parve il sole, e mostrandola al compagno faceva:
– Guardate, compare mio, che ci è spuntato il sole tra’ piedi, e noi non ce ne siamo accorti.
E l’altro, per non dargliela vinta:
– Gnornò, che non è il sole, ma la luna, che i galli non cantano.
E quello:
– E io vi dico che è il sole.
– E io, che è la luna.
È il sole, è la luna, nessuno se la voleva dar persa, e se non era che non stavano dritti finiva a zuffa. Finalmente, si trovava a passare di là il piazzese, che iva a Mazzarino, pei fatti suoi; e quelli vedendolo si volsero a lui, che dicesse la sua:
– O voi, messere, è quello il sole, o la luna?
E il piazzese:
– Ahbo’ io forestiero sono!
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Il Beato Agostino
Il terminese si faceva tagliare la testa per il Beato Agostino, che in paradiso faceva tutto lui, e i cristi e i santi erano nulla al suo confronto.
– O che vi pare; – andava dicendo – che ce n’è prima di lui? lui è il padre, lui il figlio, e lui lo spirito santo; e anche lui è la madre, e i miracoli che fa sono come i vermi nel formaggio e le mosche sul miele.
E quand’era in chiesa, lo pregava così:
– O Beato Agostino, madre di Dio, pregate per noi peccatori…
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Il coltello
Una sera il castrjannese tornò di campagna tutto allampanato e stracco, e si buttò per morto sopra una seggiola, e non apriva bocca, col naso che gli fiatava come un mantice; e la moglie, spaventata di vederlo così:
– O che avete, marito mio?
E lui:
– Ho, che non ho mangiato tutta la giornata, e ho zappato la vigna sempre a digiuno.
– E perché, marito mio? Non vi misi tutto nella bisaccia, stamattina? Non c’era un pane come una ruota, una cipolla sana, il vino nel fiasco, e le ulive nella coppa; che ci misi tutto i’ con le mie mani?
E lui:
– O come dovevo tagliarlo il pane, che dimenticai di portarmi il coltello? Ed è rimasto sano come era, e intatta è la cipolla, e tutto il vino, che non mi piace bere a pancia vuota, e il companatico senza pane non so mangiarmelo.
E la moglie:
– Ih, ih, marito mio; e se non avevate il coltello, non potevate romperlo con una pietra, come faceva mio pa’?
E il castrjannese, battendosi la fronte:
– Ragione avete, moglie mia, che non ci pensai. Ma un’altra volta, se mi scordo il coltello, lo rompo con una pietra, e mangio come un cristiano!
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Il castrjannese
Come il castrjannese fu grande e grosso, suo pa’ gli disse:
– Ora ti devi sposare, ch’è tempo e sei in potere.
E lui, che badava alle faccende in campagna:
– E voi sposatemi come piace a voi, ch’i’ non so nulla e voglio farmi i fatti miei.
Il pa’ gli trovò subito la zita con le gambe dritte come una giumenta, e sincera come il pane ogni altra cosa; e gli fece:
– Ora la zita te l’ho trovata, ch’è bianca e bionda come lo zibibbo; e sali tosto al paese:
che tu sarai il gallo della casa
e tu cavalcherai sopra la botte
e le butterai il ciuco fra la sulla!
E lui, grattandosi la zucca:
– O che devo esserci anch’i’?
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Il diavolo del calascibettese
Alla stagione, il villarosano se ne andò a Calascibetta a mietere e a trebbiare; e come erano sull’aia la moglie del calascibettese molto gli piacque, col suo petto di faraona. Ma per quanto si macinasse il senno non sapeva come fare, che quella aveva paura del marito e non trovava largo un solo momento; e la notte a sentirli vicini a sé sulla paglia si struggeva come una candela.
Passa ora passa poi, capitò che il calascibettese mostrasse grande spavento del diavolo che talvolta gli appariva con le corna di becco sulla testa, il viso affumicato e muggendo come un toro.
Una notte dunque ch’era buio fitto, il villarosano si aggiustò sulla f ronte un gran paio di corna di becco attorcigliate e ricamate, si affumicò il viso con la fuliggine della padella e muggendo come un toro s’infilò sotto le coperte di quelli e saltò addosso alla donna, che se lo prese.
Il calascibettese atterrito si mise a gridare che fosse; e la moglie di rimando:
– È il diavolo, marito mio; afferratelo, che ha le corna!
Il calascibettese, tremando come una foglia, allungò le mani, e trovate le corna le tirava a sé e scrollava; finché non gli restarono in mano, e il villarosano, compiuto il fatto suo, se n’andò dall’altra parte.
La mattina dopo, il calascibettese, mezzo morto ancora dallo spavento, lo contava a tutti, e per prova mostrava le corna che gli erano rimaste in mano nella zuffa; e tenendosele poi sulla testa e muggendo come un toro rifaceva appuntino il diavolo; e la moglie, guardandolo ammirata:
– O come vi stanno bene le corna, marito mio!
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Il cesarottano
Il cesarottano, come tornò dalla vicenda non ci vedeva più dagli occhi dalla gran voglia; e buttata la moglie sul letto partì infuriato come un toro. Quella si spaurì, e ci si mise la mano davanti a difendersi; e gli faceva:
– Piano e col modo, marito mio, che così mi sbudellate!
E lui, tutto focoso:
– Levatevi la mano vi dico, che ve la buco!
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Il cappuccio a pizzo
Un dì che Re Guglielmo non aveva nulla da fare al solito suo, fece gettare, per città, castelli e paesi un bando a suon di trombe, tamburi e pifferi:
– Signori miei! da oggi in poi chi è becco deve mettersi il cappuccio a pizzo per non far succedere confusioni. E chi non se lo mette, c’è la pena della testa e cent’onze di multa.
Dappertutto, quelli che erano in piazza, al sentire il bando, chi scappava di qua e chi scappava di là, come cascasse il cielo a pezzi; e tutti tornavano col cappuccio a pizzo, per non pagare la multa e perdere la testa. Anche il troinese se ne andò a casa sua di corsa, e tutto ansante e trafelato lo contò alla moglie:
– Lo sapete il bando che ha gettato Re Guglielmo, che tutti i becchi devono mettersi da oggi in poi
il cappuccio a pizzo, per non far succedere confusioni?
La moglie diventò una furia e andava su e giù sbraitando contro Re Guglielmo che non aveva nulla da fare e metteva lo scompiglio nelle case della gente onesta, e il cappuccio a pizzo doveva metterselo prima lui, come capo di regno per dare il buon esempio ai sudditi.
– Lui se lo deve mettere il cappuccio a pizzo; e le pianelle, ché le corna gli escon fin dai piedi; e le brache se le deve allargare per farcele entrare tutte. Ah, marito mio, voi lo sapete s’io vi ho sempre rispettato! E quelle di Re Guglielmo invece sono quante la rena del mare! Domandatelo a tutti che cura ho avuto del vostro nome e come mi sono sempre comportata, e nessuno ve lo sa dire! Chi mi è venuto appresso per la tentazione non gli ho rotto il battesimo, e non ve l’ho fatto saper mai per non darvi dispiacere. Ah, marito mio, io ci ho pensato per il mio onore e non voi! E per il vostro ci avete pensato voi e non io! Ah, marito mio, lo potete dir forte che vi ho onorato più del sole nel cielo!
Il troinese si ringalluzziva tutto a sentirla fare così, e anche lui se la pigliava con Re Guglielmo che non pensava ai casi suoi; ma come se ne usciva per tornarsene in piazza, la moglie lo richiamò in fretta:
– Sentite, marito mio, per il sì e per il no mettetevelo anche voi il cappuccio a pizzo, e così leviamo l’occasione.
E il troinese per il sì e per il no si mise anche lui il cappuccio a pizzo.
***
XXXI-XL
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Il troinese alla fiera
O che vi pare – gridava il troinese alla fiera – che noi siamo gente da un soldo due? Al bosco, come vien prima; ma in piazza, casacca di velluto alle costole, brache larghe alle gambe, cappuccio a pizzo alla testa, e buongiorno a chi passa.
***
Il monaco di Santo Nicola
Il monaco di Santo Nicola, dopo che s’era ingollato un gallinaccio intero e un barile di vino, si mise sul piazzale dinanzi la chiesa, e sbuffava e ruttava, e tutto sbracato andava su e giù affannatamente.
Gli si avvicinò un poverello, e gli stese la mano:
– Per carità, Vostra Reverenza, mi date un soldo per un panino, che muoio di fame?
Il monaco lo allontanò con tutt’e due le mani:
– Vattene, figlio, vattene! non vedi che per mangiare io sto morendo?
***
La riccia
Una volta il siciliano, non sapendo più come sbarcare la vita in Sicilia, lasciata la moglie, passò lo stretto e se ne andò in Calabria da un suo compare.
Il calabrese l’accolse a braccia aperte, e con lui divise casa e tavola, e gli trovò da lavorare con l’accetta e con la vanga.
– Compare mio – gli diceva sempre – non dovete aver soggezione con noi, e tutto quello che volete, domandatemelo; che da noi si usa spartire fin il letto con il proprio compare.
Il siciliano lavorava, mangiava e dormiva; ma molto non passò che si fece venire la malinconia, e quando vedeva il compare voltava gli occhi dall’altra parte e si tappava la bocca per non parlargli.
Il calabrese non sapeva più che domandargli, e che inventare per farlo contento:
– Compare mio, o che avete? Perché non me lo dite, ch’io ve lo fo?
Il siciliano si voltava dall’altra parte senza rispondergli nulla, e poi masticava per conto suo.
E il calabrese:
– Compare, o che vi ho fatto, per la grazia di Dio?
Tanto glielo disse: – che vi ho fatto, che vi ho fatto? – che il siciliano gliela cantò:
– Bel ricetto che mi avete dato, compare mio! Vi ringrazio davvero! Se foste venuto voi in Sicilia, io sì che l’avrei fatto il mio dovere; e tutto avrei diviso con voi, senza lasciarvi a digiuno di nulla. Questo non me l’aspettavo da voi, che mi dite sempre: – da noi si usa spartire fin il letto col proprio compare! – e intanto vostra moglie ch’è bella e fresca ve la tenete tutta per voi, e per me non ne serbate neppure una parte e una briciola. Bella cortesia che m’avete fatta! Se foste venuto laggiù, prima del pane avrei diviso con voi mia moglie, che soltanto così si fa onore al proprio compare.
E il calabrese:
– E perché non me l’avete detto prima, compare mio? Io non sapevo che così si usa dalle parti vostre, e mi dovete scusare per la grazia di Dio! Se ho diviso il pane con voi, divido anche mia moglie che è più dolce del pane. E poiché da voi si usa così, verrò anch’io in Sicilia per gustare la vostra.
– Gnorsì, compare mio; ma prima cominciamo di qua, che soltanto si rende ciò che si riceve.
La notte il calabrese uscì fuori, e il siciliano entrò nel letto ch’era tutto caldo e soffice, e non perdette un solo minuto di tempo, e la donna andava facendo:
– Se in Sicilia si usa così, sia lodato mio marito che me l’ha detto! Compare mio, datemi abento, per la grazia di Dio!
Cosi stettero tutt’e tre felici e contenti, ma il calabrese ogni tanto si lamentava che non trovava mai largo nel letto, e il compare non gli lasciava più niente di sua moglie.
– Non ci pensate – faceva il siciliano – quando verrete voi a casa mia, farete lo stesso con me, e nel mio letto ci starete voi.
Il calabrese dunque lasciava fare di buon animo, pensando di rifarsene con la moglie del compare; ma passa ora passa poi, perdette la pazienza, che il siciliano lo portava per le lunghe e non voleva mai passare lo stretto.
– Sentite, compare mio – gli disse un giorno – non è questo il modo di mancare ai patti. Andiamo a casa vostra, per la grazia di Dio! se no, non vi so dire come finisce.
E la moglie, anche lei:
– Giusto è che ve lo portiate; se avete gustato me, voi fategli gustare la vostra, e poi tornate ancora, ch’io ne ho sempre per tutt’e due.
Così il siciliano non poté più farne a meno, e partì col compare per il suo paese, e non so dirvi come gli facesse il cuore al pensare ciò che avrebbe detto sua moglie. Come giunsero, si chiamò quella in disparte, che non sapeva più che feste fare, e buttandosele ai piedi le narrò il fatto e il patto; come il compare era venuto con lui per avere la sua parte, e che quindi pensasse lei a trarsi d’impaccio.
Quella non si spaurì, che modi non le erano mai mancati per gabbare i santi, e lieto viso fece al calabrese, e lo cibava e gli girava intorno come un fuso. Come fu notte, prese che aveva una riccia, la scuoiò e se ne mise la pelle davanti, e col calabrese se ne andò a letto, tutto vezzeggiandolo.
Al buio, quegli partì infuriato, ma saltò dieci palmi in aria, gridando:
– O che avete che voi pugnete?
– Nulla, compare mio, che tutte così siamo noi siciliane – e lo tirava a sé perché ritentasse la prova.
Ma quegli scappò via, ed era già in Calabria, che gridava ancora:
– Me’, come pugne la siciliana!
***
Il mistrettese
Una volta che il mistrettese era tornato per la vicenda, bisticciò con la vicina; e quella, con le mani sui fianchi, si mise a sbraitargli contro ch’era becco e ribecco e che sulla sua casa, mentre egli pasceva le pecore, ci spuntavano corna fitte più della gramigna.
Il mistrettese corse a lagnarsene con la moglie, che quello non era il modo e la maniera:
– Lo sentite, moglie mia, come dice la vicina, ch’io son becco e ribecco e che sulla mia casa, mentre conduco le pecore, ci spuntano corna fitte più della gramigna?
E la moglie:
– Ah, vi ha detto così, marito mio? Aspettate che ci penso io.
E fattasi sulla porta, si mise a sbraitare contro la vicina, anche lei con le mani sui fianchi:
– Che importa a voi se mio marito è becco e ribecco? Se egli lo è, vuol dire che a me piace così. Forse le corna gliele piantate voi sulla fronte? S’io l’adorno, certo è che gli stan bene. Sì, becco ei c’è stato, c’è e ci sarà, e voi non vi ci dovete immischiare!
E voltandosi al marito:
– Siete contento, marito mio? Avete inteso quante gliene ho dette?
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L’acitano
L’acitano il giorno di Santa Venera, con la pentola piena di carne cotta e di ossicini, andava gridando:
– Il paradiso nella caldaia! Il paradiso nella caldaia!
Un tale, di dietro, ficcava ogni tanto la mano nella pentola, e trattone un osso se lo spolpava come cosa sua.
Ma l’acitano lo colse con la mano dentro, e gli si voltò inviperito:
– Santissimo e santissimo, che state facendo?
E quello:
– Cercavo l’anca di San Giovanni Battista.
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Il Pizzo di Pòllina
A Pòllina, il sole spuntava più tardi del giusto; e la colpa era del Pizzo ch’era davanti. Perciò decisero di toglierlo di là, ma non sapevan come fare. Chi diceva di buttarlo giù con picchi e con pale, chi di tagliarlo con uno spago come una ricotta, chi di rompergli il capo come a una nacchera; ma la cosa non era facile come pareva, e volevano insieme lasciarlo intatto per delizia dei luoghi.
Finalmente uno s’alzò, e disse:
– Signori miei, anch’io dico la mia, e vediamo se vi piace. Se il Pizzo è davanti come un cetriolo, portiamolo dietro, che ci sta d’incanto. Attacchiamogli dunque una fune alla cima, e mettiamoci tutt’insieme i pollinesi a tirare. Tira tu tiro io, vedrete che ci verrà appresso come un asino, e la cosa è fatta .
La proposta piacque, e così fecero. Attaccarono una grossa corda al Pizzo, e si misero a tirare di gran lena; e a ogni botta gridavano tutti:
– Tira, Pòllina, che il Pizzo viene!
E sono ancora là che tirano.
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Il vino a tre soldi
Il sabato santo, per maggior pregio, gli assaresi fecero venire il paratore di Leonforte, ch’era famoso.
Quello salì sull’altare col fiasco appeso alla cintola, e dietro la tenda acconciava il Cristo risorto; gli mise nella dritta la canna con la pezza, la raggiera d’oro alle reni, e tutt’intorno le candele accese, ch’era un bel vedere.
Nel mentre venutogli da bere, si tolse il fiasco e se lo succiò tutto; e noti avendo ove metterlo, per comodo lo appese alle tre dita aperte che il Cristo le va va in alto alla manca; e continuò il fatto suo senza pensarci più.
Intanto nella chiesa il brusio era grande, e i preti in cappa magna cantavano messa a squarciagola. Arrivati alla resurrezione, il sagrestano si fece sotto, e gli gridò:
– Spicciatevi, spicciatevi, che il Cristo sta resuscitando e ho da tirare la tenda.
Il leonfortese non se lo fece dire due volte, e scese a precipizio la scaletta; e come le campane disciolte sonavano a gloria, il sagrestano tirò il laccio, e apparve il Cristo trionfante in un nugolo di luci e d’incenso, con la bandiera nella dritta e il fiasco appeso alla manca.
– Viva il Cristo! – strillarono tutti, e chi si batteva il petto, e chi tendeva le braccia; e vistogli il fiasco alle tre dita aperte, facevano a coro:
– Lo vedete che dice? che il vino uguanno ha da andare a tre soldi.
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L’asino tramutato
Due caropipani, di professione ladri, battevano le strade e le campagne. Or un giorno prima di giungete a Piazza, videro avanti un canonico, che lemme lemme si tirava dietro un bell’asino bigio. Un d’essi allora tolse pian piano la cavezza alla bestia e se la mise lui al collo; e l’altro pensò al resto.
Dopo un bel pezzo, giunto a un monticello dì pietre, il canonico vi si pose per montare a cavallo, e distratto com’era, alzava già l’anca; ma dallo spavento restò così a mezz’aria, e non sapeva che dire e che fare.
E quello:
– Ah, birbante! tu dunque credevi di potermi cavalcare impunemente per tutta la vita? Finora è toccato a me, ma venuta è la tua ora. D’asino io sono tramutato in uomo, d’uomo tu sarai tramutato in asino perché cosi vuole nostro Signore Gesù Cristo; e s’io fui bigio, tu sarai morello. Suvvia, lascia la corda, ch’io ti voglio mettere la cavezza!
Ma non aveva ancora finito, che il canonico, con la tunica alzata fino al bellico, era già giunto a Piazza, gridando al miracolo.
E il caropipano ci guadagnò anche la cavezza.
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I granchi del barrafranchese
Trovandosi il barrafranchese alla valle, si mise a cercar granchi; e come ne prendeva uno, lo posava sull’erba dicendogli:
– Aspettami qua, che al ritorno ti piglio.
Andava più avanti, e a ognuno faceva lo stesso:
– Aspettami qua, che al ritorno ti piglio.
Quando gli parve d’averne presi abbastanza, tornò per raccoglierli; ma, non trovandoli, faceva stizzito:
– O che rispetto è cotesto, che i granchi sono scappati senza aspettarmi? La volta che viene li attacco con la corda.
La volta di poi, prese per corda alcuni crini della mula, e come trovava un granchio lo attaccava per la bocca a un filo d’erba! E gli diceva:
– Se l’altra volta mi scappasti, ora t’attacco! Così al ritorno m’aspetti, e ti piglio.
Quando gli parvero abbastanza, tornò per raccoglierli; ma non trovando né i granchi né la corda, andava facendo:
– O che non c’è più rispetto al barrafranchese! e lo dirò a Sant’Alessandro che ci pensi lui. I granchi scappano mangiandosi la corda; e i gabbati siamo due: io e lui!
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I sette sciacchitani
Sette sciacchitani lavoravano in un campo, e tutti e sette la notte dormivano in un pagliaio, fitti fitti.
Or una volta lasciarono appeso all’entrata il fiasco , e come c’era vento, sbandierava qua e là, e il vino dentro diguazzava forte.
Al rumore si svegliarono di soprassalto, e ancora confusi dal sonno si rannicchiavano l’un contro l’altro; e: – Che rumore è questo, compagni?
– Non senti ch’è rumore strano?
– È rumore di passi e di voci: ton ton, cif cif!
– Compagni miei, è rumore di ladri, e vogliono ammazzarci.
Allora uno ch’era il capoccio si rizzò tremante, e gli altri tremando gli si strinsero addosso.
– Sentite – disse – teniamo consiglio; arrendiamoci tutti e sette, se no ci ammazzano. Non sentite come fanno?
E quelli, al rumore che cresceva:
– Sì, capoccio, arrendiamoci; e vacci prima tu che sei il capo, e noi ti veniamo dietro con le mani alzate.
Ma come quegli s’alzò, cadde a terra dalla paura, che c’era un’ombra alla porta.
– Mamma mia; – gemeva – i’ non ci vado che son capoccio, e come capo mi tagliano la testa. Avanti deve andarci l’ultimo, che c’è un’ombra alla porta.
Allora gli altri sei, l’un contro l’altro gridavano:
– Tu sei l’ultimo, e tu prima devi andarci – e quasi si azzuffavano non potendosi mettere d’accordo.
Finalmente ciò che non poté la paura poté il coraggio, e tutt’e sette spingendosi l’un l’altro si fecero avanti alla porta; e come il primo s’alzò diede il capo contro il fiasco e non aveva ancora detto –mamma! – che movendo il piede lo posò sulla bocca della zappa ch’era là rovescioni, e il manico gli balzò sul muso, e stramazzò a terra gridando:
– Mamma mia, che sono morto.
Allora gli altri sei caddero ginocchioni, e alzando le mani gridarono:
– Siamo sette con quel morto, e ci arrendiamo tutt’e sette.
E fu così che sette sciacchitani si arresero a un fiasco.
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XLI-L
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Il Cristo del castrjannese
Il castrjannese si doveva sposare, e tutto era pronto. Gli mancava solo la comunione, e glielo dissero:
– Andate in chiesa a inghiottirvi il Cristo; se no, non potete sposarvi.
Lui se ne andò in chiesa e si confessò tutto, dalla testa ai piedi ; e per scontare la penitenza andò a inginocchiarsi all’altare maggiore.
Là c’era ancora il Cristo risorto, alto come un saracino, con la piaga rossa nel costato, una gamba qua e una là, una mano in alto con tre dita aperte e nell’altra la canna con la bandiera.
A vederlo così, il castrjannese restò come un castrjannese che era, e guardava a bocca aperta spaventato.
– Mamma mia – andava masticando tra sé – e tutto quello mi devo ingollare?
Non dico il corpo con la piaga e la testa con la spera, ma anche le braccia e le gambe ? E non dico le braccia e le gambe, ma anche la canna con tutta la pezza? Mai, che non mi ci va e non l’ho dove mettere.
E andatosene dal prete, lo mise al muro e glielo disse tondo:
– Sentite, non dico il Cristo con le gambe e le braccia com’è; ma la canna no e no la pezza, che certo mi restano qua e mi strozzano!
***
Il diocotto
Il piazzese era malato; giorno e notte in fondo al letto tossiva e sudava, e l’aria gli mancava. La moglie, disperandosi, gli faceva:
– Perché non vi raccomandate a Cristo e a San Luca, che vi fanno la grazia?
– Lui si raccomandava a Cristo e a San Luca, ai santi del paradiso e alle anime del purgatorio, ma quelli più duri del muro; sicché non ne poté più, e volle il medico:
– Che Cristo e San Luca, che son di legno e non m’hanno udito! Voglio invece il medico che è vivo e mi sente.
Quegli venne e lo batté tutto come un tamburino; lo ascoltò davanti e di dietro facendolo soffiare come i mantici del duomo, e infine, parlando con la lingua di fuori, gli ordinò un diocotto, mattina e sera.
Andatosene, la moglie trasse dalla parete, dove c’era da vent’anni, un crocifisso tutto affumicato scacato dalle mosche, e lo ficcò nella pentola, facendolo bollire fino a notte; e intanto il piazzese, girandosi su l’un fianco e sull’altro, andava gemendo:
– Se Cristo crudo non mi fece nulla, che volete che mi faccia cotto?
E quella:
– Gnornò, marito mio; se il dottore ve l’ha comandato vuol dire che cotto s’ammollisce, e vi sana. Non lo sapete che Cristo ha la testa dura?
Come dunque il brodetto fu pronto, gliene empì una gran tazza e gliela diede a bere, calda fumante; e lui sudava come un fiume, e la notte dovettero cangiargli le lenzuola, la camicia e la berretta di lana.
– Lo vedete, marito mio – faceva la moglie – che cotto vi tira il morbo dal sangue?
La mattina, svegliandosi, egli si sentì sano e sanato, e non voleva crederci; ma per più sicurezza la moglie gli diede a bere un’altra tazza del diocotto miracoloso. Poi quando fu sano del tutto e s’alzò, lo narrava per maraviglia:
– Avete inteso com’è Cristo, che per far miracoli ha da esser cotto?
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Il piazzese
Tant’era valente il piazzese che non mangiava per non portarsi il pane alla bocca, e piuttosto che adoperare le mani preferiva lasciarsi morire di fame.
Si buttò dunque sotto una ficaia carica di frutti maturi, e aspettava con la bocca aperta che gli cascassero dentro, senza mai avanzare il braccio o piegare il collo per prendere quelli d’intorno.
Passa ora passa poi, uno finalmente gli cascò in bocca, ma per non muovere i denti e ingozzarselo neppure lo toccò, e rimase così, finché non morì come un piazzese che era.
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ll Cristo del nicosiano
Il nicosiano aveva nella vigna un pero che non fiori faceva né frutti, essendo di mala stirpe e duro di linfa, e per quanto lo potasse ed innestasse era peggio di prima; sicché pensò di tagliarlo. Dei rami ne fece fascine per il forno, e lasciò il tronco all’acqua e al sole, senza pensarci più.
Or dovendosi fare un Cristo alla chiesa, glielo vennero a chiedere; e volentieri lo donò, che servisse a così nobile cosa.
Il Cristo fu fatto, ed era bello e grosso e valorosamente intagliato, e nella chiesa faceva un bellissimo vedere. Presto la nomea si sparse, e tutti andavano a buttarglisi sotto, raccomandandosi a lui per questo o per quello, che lo stimavano miracoloso.
Accadde che al nicosiano si ammalò il figliolo; e corso subito a’ piedi del Cristo lo pregava a gran voce, piangendo e sospirando, che glielo guarisse, avendo quello solo al mondo.
– Cristo mio – gli faceva – ricordati che io ti piantai e zappai, e io ti tagliai con le mie mani; e se non era per me, non Cristo ora saresti ma pero come tanti a Nicosia, che non fanno né fiori né frutti, e ci si appollaiano i merli e le gazze.
Ma il Cristo con le labbra strette e gli occhi in aria non faceva né sì né no; e quello stava là giorno e notte con le mani giunte che gli facesse la grazia; finché una volta non vennero a dirgli che il malato invece di guarire era morto.
– Ahi! – gridò allora, battendosi la coscia – pero non facesti mai pere, e Cristo manco fai miracoli. Lo sciocco fui io a pregarti.
***
La pappa
Proprio che scodellava, e il figlio aspettava col cucchiaio in mano e la bocca pronta, portarono alla piazzese la nuova che le era morto il marito come un piazzese che era.
Quella lasciò subito il mestolo e si mise a gettare le voci:
– Ahbo’, marito mio! e giusto ora dovevate morire che stavo scodellando? E ve ne mancava tempo, di mattina o sera o prima di mezzogiorno che non avevo nulla da fare? E ora che vi devo piangere, la minestra mi si raffredda e si sciupa, e non so come fare.
E il figlio, tirandola per la manica:
– O ma’, prima mangiamo la pappa e poi piangiamo il pa’, che il tempo c’è.
***
La croce
Il caropipano se ne andò a Piazza a trovare il compare e la comare, che non vedeva da molto tempo.Gli fecero grandi feste, e non sapevano più che dirgli, fargli e contargli, tutt’e due sempre intorno come due fusi, e la moglie più del marito.
Nel mentre cominciò a piovere a diluvio, e i lampi e i tuoni uno andava e l’altro veniva. Si fece notte, e il tempo non accennava a finire; e il caropipano per non dar loro fastidio voleva andarsene lo stesso.
– Oh che siete pazzo – lo redarguì il piazzese – con quest’acqua che pare l’universale? Restate qua con noi.
– O come resto che siete stretti?
– Se siamo stretti, ci stringiamo di più. Ma non vedete che il letto è grande come un’aia? Voi vi mettete al muro, mia moglie nel mezzo e io davanti.
Cosi fecero. Spensero la lumera e si misero a letto; e il piazzese ch’era furbo, per paura che il compare non gliela facesse a tradimento con la moglie, ci mise davanti la mano a riparare l’entrata; e il caropipano sentito l’ostacolo ci si rodeva.
Or mentre stavano così, un gran lampo dalla finestra saettò la camera. Nel soprassalto, il piazzese atterrito levò la mano di là per farsi la croce; e in quella, sgombro il terreno, l’altro saltò addosso alla donna, senza fallare di tanto.
All’amen il piazzese tornò con la mano a difendere il luogo di prima, ma ci trovò invece il compare; e meravigliato della prontezza, faceva, aspettando che quello finisse:
– Ahbo’, compare mio, manco il tempo di farmi la croce mi date?
***
Il licatese
Un dì il licatese, colta a tradimento la vicina, la buttò sul letto, e partì per il fatto suo.
Quella se la prese a rispetto, e gli andava facendo:
– O che malcreanza è questa con mia signoria? Non lo sapete che alla porta chiusa si bussa e alla casa d’altri si domanda permesso?
E lui: :
– O non vedete che per entrarci mi sberretto?
***
Il piazzese
Andandosene a Piazza un tale, incontrò il piazzese.
O voi – gli fece – siete cristiano?
E quello:
– Gnornò: piazzese.
***
La “trazzera”
Lascia la vanga – gridò il castrjannese a suo figlio – e sali al paese, che ti devi sposare.
Quello fece come gli disse il pa’; e come fu alla casa, lo vestirono a nuovo, gli misero la berretta in testa, le scarpe di vacchetta ai piedi, e lo mandarono in chiesa a confessarsi.
Lui uscì nella strada, che non era pratico, e non sapeva di dove prendere; e il padre gli gridò dietro:
– Oooh! non ti scordare che tre sono le persone della Trinità, e la croce si fa con la mano dritta!
Lui, per pensarci, alzò la dritta alla fronte, e alla manca teneva tre dita aperte; e andava così dove lo portavano i piedi.
Ma cammina cammina, era nuovo dei luoghi, e domandava:
– Oooh, sapete dirmi qual è la “trazzera” che porta alla chiesa, dove si fa la croce con la mano dritta, e tre sono le persone della Trinità come tre lampe allumate e tre sacchi di gesso?
***
I falchetti
Trovandosi il barrafranchese alla montagna, volò dal balzo un bellissimo falco.
– Oh – gridò – laggiù nel balzo c’è un nido di falco, e voglio prenderlo.
Ma non poteva scendere, che il salto era a picco; e disse all’asino:
– Senti, asino mio: io mi attacco alla corda, e tu mi tieni. Dopo divideremo i falchetti: a me i pennati, e te gl’implumi.
Così fecero. Si attaccò alla corda e cominciò a scendere; ma non arrivandoci, gridava all’asino:
– Calami ancora, asino mio, che non ci arrivo.
L’asino lo tenne quanto poté; ma, quegli tirandolo, infine sdrucciolò e precipitarono insieme nel fondo, rompendosi l’ossa.
– Ah, traditore – gli gridò il barrafranchese, spirando – e che hai guadagnato non mantenendo il patto? Né io né tu abbiamo i falchetti, io i pennati e tu gl’implumi; e la colpa, che Sant’Alessandro ti castighi, è tutta tua.
***
LI-LX
***
Il caltagironese
Il caltagironese, con dei fichi nel fazzoletto se li andava mangiando; e come la chiesa gli veniva alla passata, ci entrò a far visita a San Giacomo, ch’era sull’altare fra le candele accese.
Inginocchiatosi, si mise a pregarlo con la bocca piena, e le parole gli uscivano smozzicate, sicché lui stesso non sapeva più dove finivano e dove incominciavano, e ci s’imbrogliava.
Intanto non perdeva tempo e se li ingozzava tutti; e quando gli parve d’aver bene spifferato il fatto suo, prese un fico dei più duri e lo buttò in faccia al Santo, per ingraziarselo:
– Tenete qua, San Jacopitto glorioso: mangiate, anche voi.
Ma quello, come gli giunse sulla faccia, lo ributtò e:
– Bravo, San Jacopitto – gridò il caltagironese ammirato – i duri non vi piacciono, e volete i fatti, come me che ho la bocca.
Ne prese uno dei più fatti e glielo buttò, e come gli giunse, vi restò appiccicato; ne prese un altro, e lo stesso; e così tutti.
– Caspita – borbottava lui intanto – i fatti ve li mangiate, e a me che mi restano? Facciamo uno l’uno da buoni amici; questo a me, e questo a voi – ma lui si mangiava i fatti e i duri li buttava al Santo; e quello glieli ributtava fin sui piedi, quanta più era la forza.
E quando non ne ebbe più, lo contava fuori per maraviglia:
– Lo sapete San Jacopitto? i fatti se li mangia, e i duri li ributta.
***
L’augello crudo
Nel più crudo verno, due calabresi, venuti in Sicilia per lavorare con l’accetta, si smarrirono in un bosco. Il freddo era grande e la neve copriva tutto dovunque; ed essi meschini qua e là senza rifugio e conforto, e saettati dalla fame, che non avean nulla con sé.
– Ah, compagnello mio – gemette uno alfine – e dove andiamo così? Fermiamoci un momento per la grazia di Dio, e accendiamo un po’ di fuoco per riscaldarci le mani.
– Bene dici, compagnello – fece l’altro – e per non morire raccomandiamoci al Cristo di Calabria, che quello di Sicilia non ci capisce alla parlata.
Guardarono che c’era un olmo con dei rami secchicci, e il primo vi salì su e con l’accetta li faceva cadere; e l’altro intanto accendeva un focherello battendo l’acciarino.
In quella, con istrepito una civetta volò e venne a posarsi in cima all’olmo ov’era il calabrese.
– Ah, compagnello – gridò l’altro con gioia – sali tosto alla cima a prendere l’augello. L’ha mandato il Cristo di Calabria, perché ce ne sfamiamo.
Il calabrese lasciò andare l’accetta, e di gran lena cominciò a salire; ma come arrivò alla cima la civetta aprì l’ali e se ne volò via; e lui dietro per prenderla; e arrivò a terra freddo di colpo.
Il compagno, non sentendolo più fiatare, andò a smuoverlo con un piede, e vistagli la bocca piena di sangue:
– Ah, malnato! – esclamò. – Solo mangiasti l’augello crudo per non darne a me compagnello, e il sangue l’hai ancora alla bocca. Ma se vuoi fuoco, prima sputa la mia parte.
E poiché quello non rispondeva nulla, se ne andò solo dove lo portarono i piedi.
***
Il nido del barrafranchese
Trovandosi al piano, il barrafranchese si mise a cercar nidi; con la lingua in mezzo ai denti per non far fuggire le mamme.
Dopo un bel pezzo, gridò al padre da una macchia:
– O pa’, siamo ricchi.
E quello:
– E che hai trovato che siamo ricchi? un asino carico d’oro?
– O che oro e oro! Siamo ricchi e nessuno lo sa.
– E che hai trovato, una botte piena di preziose?
– O che preziose e preziose! Siamo ricchi e nessuno lo sa.
– E che?
– Ho trovato un nido di rosignoli, e non c’è né uova né niente, e c’è le merdicelle fresche.
***
Giufà e il mazzarinese
Il povero Giufà, le mosche non lo lasciavano mai in pace; e ricorse al giudice.
E quello:
– Se le mosche non ti lasciano in pace, tu dove le vedi dà loro uno schiaffo.
Ma il mazzarinese ch’era presente e amava il giusto, gli parve un’angheria, ché le mosche erano cristianelle anche loro; e come Giufà alzava la mano contro una mosca, lui prima, gridando:
– Sciò sciò, che Giufà t’ammazza.
***
La trippa
Il dì dell’Assunta il piazzese pensò di far baldoria, e con due tarì in mano se ne andò in piazza per la carne, che la vedeva ogni cent’anni.
Ma gira e cammina, i soldi eran pochi e non gli bastavano neppure per uno stinco: e non sapeva che farsi.
Finalmente, vista a un punto una gran trippa appesa all’uncino, tutta verde come la mantella di San Pietro e annuvolata dalle mosche, domandò che fosse; e sentito che non carne era ma trippa mangereccia, e i soldi gli bastavano, se ne fece tagliare una bella falda e mettere in carta.
– Ma – domandò prima d’andarsene, che non lo sapeva – o come si fa cotesta? Cruda o cotta? A brodo o s’ha da arrostire sulla graticola?
Il macellaio a spiegargli come, che doveva esser stracotta, e lui a imbrogliarcisi sempre, e si scordava ogni volta di raschiarla, sicché ci sentiva l’odore del ventre.
– E voi – disse infine spazientito – scrivetemelo su un bigliettino come si fa, ch’io non ci penso, e a casa me lo fo leggere da chi ci vede.
Il macellaio così fece; e lui se ne andò per la sua strada, la dritta avanti col bigliettino e la manca dietro con la trippa.
Cammin facendo, il duomo gli veniva alla passata, e come c’era festa e dentro predicavano, ci entrò a darci un’occhiata. Ma aveva appena passata la porta ed era ancora con mezza berretta in testa, che il predicatore dal pulpito si volse a lui di botto come lo aspettasse là, e indicandolo a tutti con tanto di dito, cominciò a sbraitargli contro:
– O dove vai tu con cotesta carne? Tu, ti dico, che pensi sempre alla carne e vieni al cospetto del Signore con la carne. Buttala lungi da te, e pensa dunque alla tua anima.
Il piazzese si sentiva preso dai turchi, e gli occhi di tutti gli erano addosso, e il bisbiglio era grande; ma come quello non la smetteva con la carne di qua e la carne di là, finalmente, non ne poté più e avanzando il braccio gliela mostrò che era.
– Che carne e carne – gridò – non vedete ch’è trippa, che me l’han data per tale?
Tutti lo zittirono, e non contenti di ciò, come voleva sbandierarla ch’era trippa e c’era anche scritto nel bigliettino, lo cacciarono fuori con scandalo e gli chiusero la porta in faccia.
Tutto acceso in volto, lui gridava che intendessero la ragione; e come non volevano sentirlo, masticando minaccioso che non c’era più modo di vivere in pace, continuò pei fatti suoi come prima, la dritta avanti e la manca dietro.
Andando così, un cane sentì l’odore della trippa e si mise a seguirlo passo passo, annusando: finché a un punto con una boccata non gliela strappò di mano, e via come una lepre.
Il piazzese si volse a guardarlo senza scomporsi, con la manca dov’era; e levando in aria
la dritta col bigliettino, gli gridò dietro:
– Ahbo’, baggiano, corri quanto vuoi! La trippa l’hai tu, ma il bigliettino è qua, e non sai come farla.
***
La figliolina
Il pierzese e la pierzese, aspettando di sposarsi, ragionavano del futuro come sarebbero stati, tutt’e due insieme come due dita nel miele, e non si saziavano dal ripeterselo; lui questo lei quello, come lo avessero già davanti gli occhi.
Prima la casa e la mula, poi il campo e ogni ben di Dio: il frumento nel granaio, le cipolle sul tetto, le zucche sotto il tetto.
Arrivati al partorire, si mettevan d’accordo ch’era una figliolina, e se la rubavano a vicenda e la sbaciucchiavano tutta.
– O quant’è bella la figliolina – diceva lui – e somiglia tutta a suo pa’ che sono io: il naso dritto, gli occhi biondi, il neo sulla guancia.
Ma nella bocca, tutta a sua ma’. E le do a succhiare la mia mammella, ch’è gonfia di latte; e si fa bianca e rosea come una cipolla, e s’ingrassa come una porcella.
E quand’è grande la mia figliolina – continuava lui – la do sposa ad un giovine come una bandiera, che si chiama Calo’.
– E all’anno fa un figlio ch’è tutto a suo pa’ e si chiama Roccuccio, come voi.
– Ma se ci muore con le vajolore?
– Ahi, la figlia mia ch’è morta con le vajolore!
E il pierzese anche lui:
– Ahi, ch’è morta; ahi, ch’è morta! – e tutt’e due a piangere a dirotto come due grondaie, che si sentivano sin dalla piazza.
E i vicini, accorrendo:
– O chi vi è morto, che fate così?
E quelli:
– Ci è morta la figliolina che ci deve nascere.
***
Il monrealese
Il monrealese, andato a Palermo il dì di Santa Rosalia, si godette la festa come gli altri. Al ritorno, per addolcire la bocca a quei di casa, comprò un bel sorbetto e se lo ficcò in tasca, avviandosi pei fatti suoi coi piedi tra le gambe. Arrivato, mise dentro la mano per prenderlo; ma invece di duro trovò acqua di brocca che gli scorreva fuori.
– Ah, birbanti palermitani; – gridò allora stringendo il pugno – la loro triste natura non può mai fallire! Strada facendo m’han rubato di tasca il sorbettuccio, e invece mi ci han pisciato dentro, ch’è fresca fresca.
***
La donzelletta
La raddusanella se n’era andata fuorivia, e quando tornò nessuno le poteva più parlare.
– O che vi pare – andava dicendo – ch’io son raddusanella come prima? Adesso son donzelletta, e sono stata in parte dove le pietre son sassi, luna è la lunella, e i cristianelli son mariti prima di sposarsi.
***
La villarosana
La figlia della villarosana, essendo nel fiore, non ci stava più ferma sulla seggiola e i suoi occhi addosso agli uomini erano come una nassa di pesci.
Or quando veniva in casa il vicino , la madre, che anche lei c’era passata, le raccomandava:
– Figlia mia, non ti far toccare dal vicino; e se ti tocca, dillo a me.
Quella andava a sederglisi accanto, e pungendolo gli faceva:
– Vicino mio, toccatemi toccatemi, che mia ma’ non vuole, e io ne muoio dalla voglia.
E come quello la toccava, si metteva a gridare:
– Mamma, il vicino mi tocca! (toccatemi, vicino, toccatemi, che mi piace e l’ho detto alla ma’).
***
Lo sciclitano
Lo sciclitano, ch’era santocchio, per esser più sicuro voleva sapere l’ora e il modo della sua morte; e ogni giorno in chiesa lo domandava a gran voce al Cristo, ch’era sull’altare.
– Cristo mio – gli faceva – ditemelo voi il come e il quando, che così mi preparo e lo so, e ci arrivo in grazia di Dio, e con una buona elemosina per la mia anima.
Ma il Cristo appiccicato alla croce non muoveva le labbra di sopra la barba; e, quello:
– Cristo mio, o che siete sordo che non sentite? e se non lo sapete voi, o che Cristo siete, d’un soldo?
Tanto lo disse e così forte, che il sagrestano, badando alle faccende del coro, l’udì; e venutogli in uggia, una volta si mise sull’altare dietro la croce, e come quegli venne a battersi il petto e a domandare la solita storia, gli gridò irato di lassù, facendo lui il Cristo:
– Lo vuoi sapere com’hai da morire? appeso come un porco all’uncino.
– E tu per cotesta linguaccia sei costà in croce.
***
LXI-LXX
***
La capaciota
Il capacioto diceva sempre alla moglie:
– Moglie mia, non mi fate le corna, che mi spuntano in fronte come un becco, e la vergogna è vostra.
Quella a battersi il petto che non era cosa sua, e il pane l’aveva in casa: ma a lungo andare per sospetto che non fosse una burla e per la curiosità insieme, volle tuttavia provare, e ogni volta gli guardava zitta la fronte.
Ma prova e riprova, cotesta gli restava più liscia di prima; e gli fece stizzita:
– O che mi contavate dunque di corna e non corna, marito mio? Ve ne ho fatte che non ne posso più, e ancora non vi spunta manco il bozzo.
***
Il malpasso
Un dì l’aidonese, vista la vicina che tutta ondeggiava stacciando la farina, gliene venne la voglia e glielo disse:
– Vicina mia, me lo fate fare ciò che vi fa vostro marito?
E quella:
– O no, che voi dopo lo gridate per i tetti; ma se state zitto, io son pronta.
L’aidonese l’assaltò; ma essendo di primo volo e spratico, ora andava di qua ora di là, senza mai trovare la via giusta, e anfanava disperato.
Quella, che aveva prescia, lo raddrizzava, ora scansandosi ora tirandolo, e come sempre gli scappava, andando sbuffando:
– O che cavicchio avete che non fa pertugio?
Dopo lungo armeggiare quegli si stancò; e messala alla luce guardava con tanto d’occhi aperti, e quando fu certo del punto, borbottò stizzito:
– O che ve ne mancava largo di pancia, che giusto l’avete in questo malpasso?
***
Le lattughelle
Una volta il re si trovò a passare da San Cataldo, e gli andarono incontro con trombette, tamburi e grancasse.
La folla era grande, e il baccano s’udiva da cento miglia lontano; e il sindaco, fattosi innanzi col càntaro in testa, gli lesse la sua bella aringa.
E il re:
– Bravo sindaco! e dimmi, che si fa a San Cataldo?
E quello:
– Maestà, non è piovuto e le lattughelle son fottute.
***
La lepre nei cavoli
Al caterinaro una lepre maledetta rovinava tutti i cavoli, e per quanto le facesse la posta non poteva mai coglierla; e la mattina invece gli restava il danno. Non sapeva più come fare; e la notte per meglio essere all’erta, dormiva con la moglie fuori, e con accanto lo schioppo e più lontano il compare.
Or capitò una notte che mentre s’apparecchiava a dar sazio alla moglie, sente nei cavoli il rosichio della lepre, e ringuainato si balza su e parte; e la moglie:
– O che mi lasciate a metà, marito mio? Finitemi prima il da fare, se no per lo stacco mi cascano i capelli.
E lui, svegliando in fretta il compare:
– Compare mio, finite voi a mia moglie dov’io restai, se no le cascano i capelli, e a me la lepre mi scappa.
E zitto zitto partì per la lepre, e l’altro intanto portò a compimento la cosa.
***
La sperlinghese
La sperlinghese, il marito le era andato lontano; e sola nel letto la notte ci sentiva le spine, e si voltava e svoltava senza mai prendere sonno.
Se ne andò dunque dalla vicina, e le fece:
– Mi prestate vostro marito la notte, che non so come fare? e vi do un moggio di farina, una caraffa d’olio e la collana d’oro della festa e come fo un figlio ve lo do a battesimo.
E quella:
– Gnornò, che mi serve, e voi me lo sciupate.
– No, vicina mia, che farò conto d’essere voi, e quando dice basta gli volto le spalle.
***
Il piazzese
Una volta Gesù, trovandosi a passare di qua, fece d’un ciottolo i castrjannesi e d’uno zipolo i caropipani; e arrivato dove fu Piazza, prese uno stronzino d’asino ch’era a terra e lo buttò in aria, dicendoli:
Stronzino stronzicoIo
parla piazzesicolo.
Cadde lo stronzino e rotolò quanto gli parve; e fermatosi finalmente ne sorse su un piazzese come un piazzese che era. Si sgranchì, si fregò gli occhi coi pugni, e sputando a terra, gridò al Cristo:
– Ahbo’, che fai tu costì? levati di qua, che sei nel mio.
E Cristo dovette passare al largo.
***
“Lu ma”
Il castrjannese dava marito alla figliola; e la mattina andandosene in campagna sulla mula lo annunciava a chi prima incontrava:
– Lo sapete? do sposa la figliola.
Tutti si rallegravano; ma al sentire il nome del giovane scrollavano il capo:
– Il partito è buono, ma c’è lu ma.
Ma c’è lu ma, ma c’è lu ma, il castrjannese non sapeva più che pensare: e messo finalmente uno alle strette volle sapere che fosse; e glielo dissero:
Il giovane è buono, ma gli manca la cucca.
Il castrjannese voltò la mula e volò a casa come il vento; e li trovò che sonavano e ballavano per festeggiare il fatto; e lui:
– Basta la musica, che la cucca non c’è.
Il festino cessò e i balli restarono in aria; e la zita cominciò a piangere disperata, dandosi pugni sulle cosce:
– Ahi, amara me, che il mio damo non ha cucca per uccellarmi la notte!
Ma quello si chiamò in disparte il castrjannese e gliela fece vedere; e allora:
– Avanti la musica, che la cucca c’è.
***
Le minchie
Un giorno trovandosi San Pietro a passare di qua, vide il piazzese che arato il suo campo lo andava seminando:
– O che semini? – gli domandò.
E quello:
– Minchie, per chi non ne ha.
– E minchie sieno – disse San Pietro, facendoci sopra la benedizione.
E alla stagione infatti il campo produsse in abbondanza grandi minchie e rigogliose; e fu lo spasso delle vedove, delle vergini e delle maritate, cui una sola non bastava più.
***
I tredici sindaci di San Cataldo
A San Cataldo dovevano fare il sindaco. Misero la bandiera al balcone, e la sera i tredici consiglieri si radunarono al municipio. Ma, giunti al fatto, non potevano mettersi d’accordo. Chi voleva questo chi quello, e quando l’uno era pronto l’altro spuntava, e ci trovavano subito i difetti e i se e i ma. Tutt’e tredici, ognuno diceva la sua, perché così e così il popolo voleva un sindaco e non un càntaro con la sciarpa. Consumarono tutta la saliva che avevano in bocca, e a mezzanotte non avevano ancora concluso nulla. Finalmente la folla, che assisteva pigiandosi come le sardelle in un barile, stanca gridò:
– Votazione, votazione!
I tredici si sedettero; e sputacchiando e spurgandosi per darsi dignità, ognuno scriveva il proprio nome nella polizza, e con sussiego andava a deporla nell’urna, dicendo verso la folla, con una mano sul petto:
– Questo lo faccio per il bene del popolo. E quelli battevan le mani.
Così, a scrutinio finito, i sancataldesi si ebbero tredici sindaci.
***
La brusca
Un giorno che il sancaterinaro strigliava la mula, non trovò più la brusca. La cercò per ogni dove, in tutti i buchi e le fessure, e la fece gridare anche dal banditore; ma fu tempo perso.
Messosi in sospetto, la stimò rubata, e perciò stava sempre all’erta per scoprirla a qualcuno. Or avvenne che entrato all’improvviso nella casa della vicina, la trovò nuda che si metteva la camicia; e quella come lo vide, subito si nascose con le mani sotto del ventre, gridando come una gazza dallo spavento.
– Ah – esclamò il caterinaro al vederle quell’ispido sotto le mani – siete voi dunque la ladra! Suvvia, ridatemi la brusca!
E poiché quella gridava che se ne andasse, si si mise a gridare più forte di lei:
– M’ha rubata la brusca e l’ha fra le cosce.
***
LXXI-LXXX
***
La ragusana
– Marito mio – faceva ogni volta la ragusana al marito – o che paura avete di sciuparvi? Fate fate, e non ci pensate; che quando non ne potete più, per il cambio ci penso io.
***
Il burgitano
Il burgitano partendo, non voleva lasciar sola la moglie, che non avesse paura.
E quella:
– Ragione avete, marito mio, che la notte nel letto c’è buio, e io non ho compagnia.
E lui, andatosene dal compare:
– Sentite, compare mio, io parto e voi restate; e fate compagnia la notte a mia moglie al posto mio, che nel letto c’è buio e non so che le può accadere.
***
Il furetto arrospato
Due caltanittesi erano a caccia, e avvistata una tana vi buttarono il furetto. Dentro il coniglio non c’era, ma un rospo; e come contro gli si avventò già ’mbriaco del sangue, quello alzò l’anca e gli pisciò sul muso. Arrospatosi il furetto, fuori tornò floscio e tramortito boccheggiava.
Disperati del danno, i due caltanittesi misero tosto mano alle brache per dargli rimedio; ma per quanti sforzi facessero, e spremessero e spingessero, non usciva loro un solo gocciolino di piscio dalla cannella, e facevano:
– Ohi noi, che il furetto muore se non gli pisciamo tosto sul muso! E prima che l’assommiamo nella vescica, morto è di certo.
Visto dunque vano ogni sforzo, disse uno:
– Compagno, corriamo subito alla strada, e chi passa preghiamolo che pisci sul muso al furetto, ch’è il primo del paese e valente.
Corsero alla strada, ma nessuno passava. C’era soltanto un asino in un campo, e per quanto lo allettassero non voleva pisciare, anzi scalciava.
Andarono più oltre di corsa, e finalmente videro venirsi incontro una donna con una corba sulla testa.
L’afferrarono di botto, e mettendogli il furetto sotto le gonne, uno gridò:
– Piscia, la donna, che il furetto è arrospato.
E la donna dallo spavento pisciò.
***
La ripresa degli aidonesi
Certi aidonesi erano in lite fra di loro, a cagione di una nacchera; e un giorno vennero ai fatti. Tutti alzavano mani e bastoni, con gran vocio e baccano, ma nessuno se le dava, facendo invece per quattro per farsi tenere.
Finalmente, amici si misero nel mezzo e li ridussero a miglior senno; e perché non accadessero altri macelli, come ancora si minacciavano, pensarono di rappaciarli, e ragionavano insieme del fatto.
Ma, una parola dopo l’altra, questa era nacchera che non poteva decidersi, e tutti facevano a volta:
– Ora che siamo un pugno d’amici, ora parliamone con calma.
E parlando con calma, gli animi s’accesero, che nessuno voleva darsela persa; e dato di mano ai coltelli, si scannarono l’un l’altro come cani.
E fu così che gli aidonesi si ammazzarono alla ripresa.
***
Il piazzese
Una volta, andando il caropipano a Piazza, incontrò alla Bellia il piazzese, che a cavalcioni di un grosso ramo di pioppo dava giù botte da orbo con l’accetta per tagliarlo.
– O che fate? – gli domandò. E quello:
– Non vedete che fo? taglio il ramo, che mi serve.
– O come? e se casca quello, non cascate anche voi?
– Cascate voi invece – fece l’altro stizzito – che siete cristiano, e non io che sono piazzese.
Ma non aveva dati altri due colpi che il ramo crollò e lui insieme, che restò a terra come il piazzese che era.
***
La stampa
Al mazzarinese dissero che sua moglie se la faceva col compare, e che quello ogni volta ci lasciava la stampa.
Infuriato, corse a casa minacciando lampi e tuoni, e alla moglie che gli veniva incontro premurosa domandò s’era vero che ci lasciava ogni volta la stampa.
E quella, facendosi la croce:
– La stampa, marito mio? o che vi pare che egli sia un gonzo? Se non ci credete, possiamo fare la prova alla vostra presenza.
Mandò a chiamare il compare e gli si mise sotto; e il mazzarinese intanto aspettava con tanto d’occhi aperti per non lasciarsi imbrogliare; e come quegli s’alzò subito si chinò a guardare, e vedendo che tutto era meglio di prima, tornò lieto e sereno:
– O che mi andavano dunque contando che ci lasciava ogni volta la stampa, se qua non c’è niente e anzi così si coltiva senza che io mi prenda fastidio?
***
Il Cristo di Santa Caterina
A Santa Caterina, il venerdì santo, fecero la Passione: e spogliato il Cristo lo misero in croce, con ai fianchi una fascia di carta velina, per nascondergli le vergogne.
Come calò l’ora, vennero le Marie e a pie’ della croce cominciarono a piangere a gran voce; e il corrotto era assai. Specialmente la Maddalena, ch’era bella e pettuta come una colomba, si faceva tenere; con le trecce disciolte e il petto aperto che c’era l’abbondanza, e se lo stracciava per il dolore.
Ma il Cristo, che di lassù gli veniva a tiro, a ogni occhiata a quella grazia di Dio, sentiva stridere e gonfiarsi la carta velina, e la bozza si vedeva di fuori; e non sapeva come fare.
Finalmente, non potendone più, per paura di guasto, le gridò di lassù:
– Mariagrà nasconditi le mamme, se no la carta velina si straccia!
***
Il raddusano
Il raddusano andò a confessarsi, e s’era appena inginocchiato che si sentì fare dal prete:
– Dimmi tu, quante sono le persone della Santissima Trinità?
E lui, che non le conosceva:
– O che sono di qua, cotesta gente?
***
Il frescolino
Trovandosi il mistrettese alla masseria insieme alla moglie, quando venne il nicosiano divisero la camera con una cannicciata, e l’uno stava di qua in due, e l’altro di là solo, coi letti accostati.
Ma la notte, com’erano al buio, la moglie del mistrettese si metteva tutta contro alla cannicciata, e restava così, sazia; e per quanto il marito la chiamasse a sé che così era lontana e non ci arrivava, diceva di no, che là si prendeva un frescolino dolce dolce che molto le andava a genio.
– Lasciatemi stare, marito mio, che qua mi viene di dietro un frescolino gentile che mi fa bene quanto non pensate.
Tanto Io disse questo frescolino, che gliene venne il disio anche al marito, e volendolo provare si mise come la moglie contro alla cannicciata; ma c’era appena che saltò in aria gridando:
– Ahi, moglie mia; se a voi questo frescolino fa bene, a me non garba di certo, e ancora mi brucia. E il frescolino lo lasciò tutto alla moglie.
***
Il Cristo di Mineo
A Mineo, il giorno della Passione, fecero il Cristo fra i due ladroni. Presero un tale che aveva una bella barba bionda e due occhi cilestri, gli diedero a mangiare una pentola di zucca, e nudatolo quindi lo misero in croce. A sinistra intanto il cattivo ladrone gli voltava le spalle; e il buono, a destra, la faccia pietosamente.
Nella chiesa la folla era grande e il viavai non finiva più; e tutti ginocchioni dinanzi al Golgota supplicavano il Cristo, e battendosi il petto: – mea culpa! mea culpa! – facevano a coro. Ma a un certo punto lui non ne poté più, che in quella positura le ossa gli dolevano e gridò al sagrestano ch’era sotto:
– Scendetemi, sangue di Giuda, che non voglio fare più il Cristo.
E quello, levando in su la faccia:
– Ti mangiasti la zucca? e ora fa’ il Cristo fino alla morte.
Il tempo passava e la calca cresceva. Quando finalmente calò l’ora e il Cristo doveva spirare, il prete dal pulpito ordinò che facessero silenzio, e nella confusione tutti ammutolirono,buttandosi faccia a terra.
In quella al Cristo, per lo sforzo di spirare e per la zucca insieme scappò di parlare con la bocca di dietro valorosamente; e i mineoti battendosi di più il petto bisbigliavano l’un l’altro atterriti:
– Avete inteso com’è spirato il Cristo? davvero l’anima gli è uscita con grande sdegno dai denti.
***
LXXXI-XC
***
La chiaramontana
La chiaramontana cercava il marito di giusta misura; non piacendole che ogni volta, restasse largo o mancasse. Perciò, ognuno che le si presentava, voleva prima provare se l’avesse o no quant’era il bisogno. Così li passò tutti, e nessuno le andava mai bene; sicché restò zitella.
***
L’assarese
L’assarese promise a Santa Petronilla, se lo guariva del morbo, una minchia d’argento.
Guarì; e fece subito fare, cesellata valorosamente, una bellissima minchia d’argento ch’era la maraviglia di tutti, e il giorno della festa andò in chiesa per darla alla Santa. Ma la folla era tanta che non ci andava più neppure un chicco di grano, e non poteva passare in nessun modo; e allora, alzando il braccio, gridò:
– Signori miei, di mano in mano passiamo questa minchia a Santa Petronilla.
***
I piedini
Quando la sanfilippana si maritò, il compare che la disiava da lungo tempo le girava intorno come un asino a maggio, ma quella non voleva saperne.
Or avvenne che lasciandola incinta il marito partì; e il compare, trovatala un giorno sola, si mise, a guardarla tutto trasecolato, facendosi la croce con la mano manca.
Quella si voltava davanti e di dietro per vedere che avesse:
– O che ho compare mio, che mi guardate così?
E quello, sempre più spanto e meravigliato:
– Non v’accorgete, comare mia, che vostro marito ha dimenticato di fare i piedini al ranocchio che ci avete dentro?
La sanfilippana tutta sgomenta si toccava di qua e di là per accertarsene anche lei; e andava facendo:
– O come lo vedete, compare mio , o come lo sapete?
Quello si mise a toccarla anche lui, e qua palpava e là stringeva, e con la mano le fece provare ove ci mancavano i piedini.
Quella non sapeva darsi pace, e gemeva piangeva:
– E ora, ohimè, come farò? E come farà il mio figliolo di qua a nove mesi senza piedini per camminare? Ah i, tristo marito mio, che il meglio si scordò o non gli bastò la lenza.
E il compare:
– Perché vi lamentate, comare mia, che il rimedio c’è?
– E quale, ch’io non lo so, e il mio marito è lontano?
Qua ci vuole uno pratico – fece il compare – che gli aggiunga i piedini dove
ci vogliono, senza sbagliarsi di tanto e perdere tempo.
E non potete farrmelo voi questo piacere, compare mio, se siete pratico come sembrate?
Quello si lasciò un poco pregare, e quando fu al punto giusto in men che si dica aggiunse i piedini al ranocchio.
A’ nove mesi, la sanfilippana schizzò fuori un figliolo tutto lustro e guizznte come un’anguilla di fiume, e la prima cosa che fece spingeva qua e là coi piedini carnosi come salsiccie.
Il marito, ch’era tornato, se ne andava in solluchero, e mostrandolo a tutti faceva :
– Guardate che bei piedini ha il mio figliolo: con questi può andare alla fiera e tornare.
E la moglie :
– Sì, marito mio, come se vostra fosse la prodezza! Voi dimenticaste di farglieli, e se non era per il compare che glieli aggiungesse a tempo debito, ora non farebbe così.
E il marito, guardandoglieli bene da ogni parte :
– È bravo davvero il compare, che l’attaccatura neppure si vede!
***
Il calascibettese
Il calascibettese diceva sempre alla propria moglie:
– Di dietro, moglie mia, potete farmela quante volte volete, che non me ne accorgo; ma davanti non me la fate mai, che i’ son furbo, e lo vedo.
Ma una volta ch’erano in campagna col compare, come il calascibettese montò sulla mula, la donna si buttò a terra, e torcendosi andava gridando che prendeva aria da tutti quei buchi e se non glieli tappavano con arte certo moriva.
– Giusto ora prendete aria – fece stizzito il marito – ch’io sono sulla mula e devo scomodarmi per scendere. Vedetevela voi, ch’io non voglio saperne.
E il compare:
– Non ve ne date pensiero, compare mio, che ci penso io.
E buttatosi sopra alla donna, la tappò dove più era il bisogno; e il calascibettese lieto di non essersi scomodato, mise al trotto la mula.
***
Lo Spirito Santo vecchio
I roccapalumbesi, come lo Spirito Santo diventò vecchio ne fecero venire uno nuovo per la chiesa, e quello lo misero fuori nella nicchia, che faceva un bel vedere.
Venuta la festa, andarono per prenderlo anche lui, ma gli trovarono la testa piena di merdicelle di colombi, e fu gran subbuglio.
Radunatisi in fretta e furia, tutti chiamavano all’armi; e il banditore correva per ogni dove sonando il tamburo e gridando:
– Tatièb, tatièb, tatièb! o roccapalumbesi, maschi, femmine e d’ogni specie, correte tutti con carabine, schioppi e pistole, che le colombe cacarono in testa allo Spirito Santo vecchio, e s’ha da fare vendetta.
***
Il Cristo di Mezzoiuso
A Mezzoiuso, il venerdì santo, fecero il Cristo fra i due ladroni; e mentre le Marie piangevano a dirotto ai piedi della croce, il giudeo con l’elmo di cartone e la lancia faceva la guardia.
La più pietosa era la Maddalena, coi capelli scarmigliati e le mammelle tutte di fuori per il dolore; e il Cristo, che l’aveva di sotto, a guardarla così, l’asino gli si drizzava sotto la fascia e non voleva star fermo. Allora il giudeo alzava la lancia, e giù un colpo perché abbassasse il raglio; e il Cristo non potendo pararsi sussultava sul legno.
Ma la cosa non approdava a nulla, anzi a ogni colpo avveniva il contrario; e come quello rialzava la lancia, il Cristo dimenandosi gli faceva.
– Cane d’un giudeo, non gli dar botte ch’è peggio!
***
Il calabrese e il giudice
II calabrese era nimico a morte col vicino; e un giorno ch’egli era alla vigna, l’altro venne con lo schioppo, ma il colpo gli fece cilecca. Allora il calabrese con la zappa gliele diede sul capo, e lo sotterrò dove cadde.
Preso, fu condotto dinnanzi al giudice; e quello:
– Dimmi dunque, calabrese: sei tu che l’ammazzasti? E lui:
– Il fatto, signora giustizia, fu così e questa è la ragione: i’ zappava e lui veniva, fece fuoco ma non gli allumò; presi la zappa e lo zappettai, ahi ahò.
– Dunque l’ammazzasti tu?
– E tira, signora giustizia! Non sentite come fu la ragione? I’ zappava e lui veniva, fece fuoco ma non gli allumò; presi la zappa e lo zappettai, ahi ahò.
E il giudice:
– O non l’ammazzasti tu dunque?
E il calabrese daccapo; e tutt’e due sono ancora là che discutono.
***
II modicano
II modicano era malato, e per quanti rimedi gli cercassero, il male non se n’andava.
Fecero venire medici d’ogni parte, valenti e famosi, ma nessuno sapeva dire che fosse. Finalmente uno, ch’era nominato fra tutti, bussatolo ben bene come un tamburo, storse il muso e sentenziò che la cosa era grave.
– Il male è di dentro – disse – e domani portatemi le sue urine per studiarle a dovere, che là dentro c’è scritto.
La notte, il modicano altra cura non ebbe che d’empire il pitale, e raccomandava alla moglie che approntasse bicchieri e caraffe per la bisogna. Ma la mattina, che è che non è, quella ch’era gravida scambiò il pitale e porto al medico le sue urine.
Quegli con tanto d’occhiali e d’alambicco le studiò da cima a fondo, e quando fu sicuro del fatto suo, annunciò che il malato era incinto e che avrebbe figliato all’epoca giusta.
La meraviglia fu grande, e tutti gridavano al miracolo essendo la prima che un uomo facesse un figlio; e certo doveva passare la cometa.
– Volete vedere – dicevano i modicani di basso – che è stato San Pietro a far la gagliardezza?
E quelli di Modica alta:
– Gnornò, che è stato San Giorgio.
È stato San Giorgio, è stato San Pietro: vennero come al solito ai fatti, e ci furon teste rotte e occhi ammaccati.
Intanto il malato nel letto, saputo il suo male, non si lamentava più e con le mani sullo stomaco come le gravide si tastava se non sentisse il figliolino; e a chi veniva a trovarlo, faceva con la voce debole di donna:
– Ora che figlio il male mi passa, ed è gravidanza difficile essendo la prima! Ma il tempo è vicino, che già mi sento il latte alle poppe.
La moglie, che non sapeva ancora capacitarsi, ma tutta in solluchero per la bella congiuntura, lo cibava dei migliori bocconi, colombi e galletti; e gli andava facendo:
– Forse, marito mio, siamo dello stesso mese e ci arriveremo insieme; io fo un maschio e voi una femmina e così abbiamo il paio in casa, e all’altra posso restar vacante per non sciuparmi.
E il modicano è ancora là che aspetta di figliare.
***
La brontesella
La brontesella aveva il vizio di santiare, e per quanto le dessero sulla voce non sapeva che farci.
– Te’, te’, la scellerata! – le gridava la ma’ – ancora non è del tutto impennata, e bestemmia come suo pa’. Vatti a confessare, se no il diavolo ti piglia.
Quella finalmente andò a confessarsi; e santiando disse al prete che quando le scappava non sapeva tenersi.
– Figlia mia – le domandò quegli – o che l’hai per uso cotesto affare, che non puoi tenerti?
E lei:
– Gnornò, padre mio: peluso l’ha mia sorella, io l’ho appena appena impennacchiatello.
***
II nicosiano
Quando il nicosiano tornò alla casa, che ci mancava tant’anni, trovò la ’redità bella e fatta: il maschio con l’uccellina di fuori, e la femmina al petto della ma’.
– Te’, te’ – faceva meravigliato – e chi ve l’ha fatto cotesto, che l’ha come suo pa’?
– Voi, marito mio, che partendo mi lasciaste la buona volontà, e l’assommai a memoria.
– E brava la buona volontà! E cotesta che vi succhia la poppa, e vi somiglia tutta nel fessolino?
– Le vostre brache, marito mio, che lasciaste appese al chiodo. Io me le misi pensandovi, e a’ nove mesi schizzò fuori come la vedete.
E lui: – E brave le mia brache, che san fare prodezze, più che ci fossi io dentro col necessario.
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XCI-C
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Il Cristo di Petralia
A Petralia fecero il Cristo, e prima di metterlo in croce lo ingozzarono di zucca quanta ne volle, ch’era un omaccione come un saracino.
Il cordoglio era grande e pietosa la vista, e chi piangeva e chi si sfondava il petto coi pugni, domandando miserere. Ma a un punto il Cristo, per la gran mangiata, gli si cominciarono a muovere le budella, e si sentiva scappare l’anima di dietro. Contorcendosi tutto, egli si teneva a stento, e piegando la testa sulla spalla affannosamente pregava che lo scendessero, che il corpo gli si scioglieva.
Ma nessuno gli badava, aspettando che calasse l’ora per darsi al corrotto; finché non potendone più, quello si mise a gridare:
Petralesi, ve lo dico a gran voce,
o mi scendete, o vi caco la croce.
***
Le canne di Sant’Alessandro
Sant’Alessandro intorno alla chiesa aveva l’orto, e c’era un canneto fitto e forte come una selva.
Ora ogni anno, quantunque il sagrestano facesse buona guardia con un occhio chiuso e l’altro aperto, i ladri si tagliavano le canne e se le portavano.
Una volta due volte, infine il sagrestano non ne poté più:
– Se a me le rubano sempre, e la mia guardia è inutile, perché non se le guarda Sant’Alessandro in persona, che son sue e non mie?
Prese Sant’Alessandro e lo pose nell’orto; e gli faceva:
– Sant’Alessandro mio, le canne sono vostre, e voi guardatevele. Fate vedere a San Rocco di Bufera Alessandro che valete più di lui.
Sant’Alessandro nell’orto si guardava giorno e notte le canne con tutt’e due gli occhi aperti e la mitria in testa; ma i ladri vennero Io stesso, e tagliatesele se le portarono sulle mule. Ma, cammin facendo, come i fasci eran troppi e le mule si schiacciavano, ne lasciavano due qua due là come veniva. La mattina il sagrestano corse all’orto, e visto il canneto tagliato:
– Ahi, Sant’Alessandro – gridò – e che santo siete che non vi guardate neppure la roba come fanno i cani?
Ma trovando lungo la strada tutti quei fasci lasciati:
– E bravo – faceva – che siete più furbo dei ladri; che vi rubaron le canne, ma gliele faceste lasciare bell’e infasciate, per risparmiare a me il travaglio.
E i barrafranchesi come seppero il fatto andavan dicendo:
– San Rocco di Butera è miracoloso, ma Sant’Alessandro di Barrafranca non è minchione, e all’occorrenza non si fa gabbare. Gli rubano le canne, ma gliele fece lasciare infasciate come gli servivano.
***
Il calascibettese
II calascibettese, gli avevano dato ad intendere che le bionde l’avevano per dritto e le brune per traverso.
Lui ci pensò sopra quale fosse meglio, e finalmente volle una bruna.
Ma la notte come l’ebbe nel letto, e vide che l’aveva per dritto come le bionde, montò in bestia e non voleva saperne:
– Gnornò, non vi voglio, che questo è un inganno. O per traverso o niente.
***
II palagonese
Ogni volta che il palagonese partiva via col carico dei lupini, raccomandava alla moglie:
– Moglie mia, al ritorno fatemi trovare un figlio, che mi serve per la vecchiaia.
– Gnorsì, marito mio, che la buona volontà non manca.
Ma al ritorno, trovava sempre la moglie come l’aveva lasciata, e se lo prendeva il diavolo, e ne voleva conto e ragione.
E quella:
– O che posso farvi, marito mio, se voi non ci mettete la vostra parte come ce la metto io?
Il palagonese ci si buttava allora di gran lena, ma per quanti sforzi facesse la moglie restava più vacante di prima, e non sapeva che farci. Scornato, domandava consiglio a tutti, e non mangiò più lupini, per paura che non fossero quelli.
Or un giorno che partiva via col carico, e raccomandava la stessa storia alla moglie, quella glielo disse:
– Se voi solo, marito mio, non ci bastate, perché non ci facciamo aiutare dal compare, ch’è pratico?
E lui:
– Se c’è bisogno d’aiuto, diteglielo a nome mio.
Se ne andò, e la moglie si fece subito aiutare dal compare, e quegli le era appena saltato di sopra che le stampò un figliolo come un angiolo.
Al ritorno il palagonese non capiva più negli abiti dalla contentezza; e dopo lo mostrava a tutti, dicendo:
– Guardate quant’è bello mio figlio. L’abbiamo fatto in due col compare, che non era cosa da uno.
***
La nicosiana
La nicosiana, che è che non è, se la fece col compare; e tutte intorno a domandarle:
– O come fu, comare? Insegnatelo a noi, che non siam pratiche.
E quella:
– Lo volete sapere? Venne il compare e si mise a toccarmi, e io lo lasciai fare dicendo: – vediamo che vuoi fare il compare. – Poi tutta mi baciava e mungeva, e io dicendo: – vediamo che vuoi fare il compare. – Poi cominciò a spogliarmi e ci coricammo insieme nel letto, e io: – vediamo che vuoi fare il compare. – Poi mi montò addosso, e fece quel che giusto gli parve; e quando finì io finalmente ne fui accorta, e gli domandai spaventata: – O che avete fatto, compare? – E lui: – E che ne so io? Ho voluto sentire come eravate di sapore: e siete più dolce della pasta di casa, e me ne congratulo con vostro marito.
***
Il mistrettese
II mistrettese, quando tornò per la vicenda, la casa ch’era vuota la trovò adornata d’ogni cosa, e se ne faceva le meraviglie.
– Moglie mia – domandava – o chi v’ha fatto questo letto di re, con la testiera che mi ci posso veder dentro?
E lei:
– Compare don Bastiano me l’ha fatto, perché voi ci possiate riposare.
– E bravo compare don Bastiano! – diceva lui gongolante. – E questo tavolo e questo cassettone con tutto il ben di Dio che c’è dentro?
– O non ve lo dico? compare don Bastiano.
– E bravo compare don Bastiano, che davvero non me l’aspettavo! E queste seggiole, e questi santi, e queste bocce di vetro che se le tocco si rompono, e cotesti pendagli che avete agli orecchi, e sembrate la Madonna dell’Aiuto?
– Compare don Bastiano, marito mio, che voi non potevate e ci ha pensato lui.
In quella s’udì un vagire dal letto, e la donna corsavi ne tornò subito con un fantolino attaccato alla poppa gonfia come una zucca.
– E cotesto, o che è? – domandò lui meravigliato.
– Non lo vedete che è? il vostro figliolino.
E lui, sgranando gli occhi:
– O chi ve l’ha fatto, che io non c’ero?
– Compare don Bastiano, marito mio, per non dare a voi il fastidio, ch’eravate al monte.
– Ba’, ba’, ba’; – esclamò lui, abbuiandosi – adesso compare don Bastiano comincia a farmi perdere la pazienza. O tutto lui fa, e io che sono, un cetriolo?
Ma più lo guardava quel figliolino, e più gli pareva di suo gusto; e presolo in braccio lo vezzeggiava con festa, e guardandolo alla lunga, faceva ammirato:
– E bravo compare don Bastiano, che l’ha fatto tutto somigliante a me che sono su pa’, per non far perdere la stirpe.
La moglie intanto non sapeva come levarselo d’attorno a causa del compare, e per un conto o per un altro sempre se ne sbrigava quant’era il bisogno; e lui come una pasqua.
Compiuta finalmente la vicenda, il mistrettese si calzò, si mise la bisaccia sulle spalle e se ne tornò al monte, pasciuto e riposato; ma giuntovi si ricordò di non aver baciato per l’ultima volta il figliolino ch’era tutto suo pa’, e di corsa rifece la strada. Arrivò ch’era notte, e la porta era chiusa; e dentro la moglie si divertiva col compare.
– Tùp, tùp, – bussò lui – o moglie mia, apritemi che dimenticai di baciare per l’ultima volta il figliolino.
Quella di rimando che se ne andasse, che il figliolino dormiva e a svegliarlo non si sarebbe quetato più; e lui:
– O se si sveglia, voi gli date la poppa e ci s’addorme di sopra come un papa.
Ma quella di no, che ad aprire la porta c’era freddo e il figliolino avrebbe preso aria; e lui:
– E voi fatemelo almeno baciare dalla gattaiola, quanto ci arrivo col muso, e i’ me ne vo.
La moglie scese dal letto ch’era nuda e andata alla porta si mise con una natica alla gattaiola; e gli faceva:
– Spicciatevi a baciarlo, che piglia freddo.
– O la carnuccia tenera; – diceva lui estasiato, e non finiva più di sbaciucchiare.
In quella alla donna, per la positura, scappò un ventolino di dietro; e gli arrivò tutto sul muso, tra un bacio e l’altro; e lui, asciugandosi la bocca con la mano:
– Ooooh, il figliolino gli pute il fiato, e pensateci voi, moglie mia, che restate qua.
E se ne tornò al monte.
***
Il gallo frustato
A Gìbbiso, cristiani non ne mancava anzi ce n’era di più, ma il gallo era uno solo, e tutti si regolavano col suo canto, villani e cappelli.
Ma una mattina, che gli toccava far tutto lui, il gallo non cantò, zitto come un pesce; e i gibbisoti, non sentendosi svegliare, continuarono a dormire alla grossa come fosse l’alba.
Quando spiccicarono gli occhi, era già mezzogiorno, e tutti se li prese il diavolo, avendo perduto chi il travaglio chi l’ozio.
Radunatisi in fretta, ne parlarono a lungo che la colpa era grave, e ognuno voleva conto della sua giornata. Finalmente uno, fattosi intorno silenzio, si spurgò e disse:
– Signori miei, qua ci vuole un buon insegnamento, se no il gallo che ci ha gabbati la prima ci gabba la seconda, e nessuno a Gìbbiso si sveglia più all’ora giusta. Prendiamolo dunque, e legatelo su d’un asino, frustiamolo di santa ragione, che se lo ricordi per tutta la vita.
E così fecero; e d’allora il gallo frustato non si scordò più di cantare.
***
Il riesano
II riesano, gli venne il desìo di sposarsi, e se la trovò tenerella e in fiore. Ma con la pratica la madre della zita gli piacque di più, ch’era ancora bella e fresca e di gran gagliardia, e ci si struggeva invano non sapendo come arrivarci.
Venute le nozze, se n’andò a letto con la sposa, e la madre gli raccomandava all’orecchio che facesse piano e con modo, e alla sposa che stesse di buon animo al piacere di lui, che la cosa era facile a passarsi e di gusto.
Ma come furono sotto le coltri, senza ài né bài, il riesano si voltò dall’altra parte, e buonanotte ai sonatori. Quella che s’aspettava la terra promessa, e s’era fatta la croce per cominciare, si svoltava e svoltava come avesse le pulci, e pungendolo alle reni gli faceva:
– Non mi toccate! lasciatemi stare, che mi fate male!
E lui:
– Gnornò, che non vi tocco.
Quella ci si rodeva tutta e non aveva pace, e buttandoglisi addosso gli faceva:
– Non lo sapete dunque perché mi avete presa, che ho bisogno di conforto e mi lasciate invece da canto come una pezza?
E lui zitto, che aveva sonno e non era cosa sua; e cosi passò la notte, che alla zita parve cent’anni e a dormire ci sentiva le spine.
La mattina finalmente, venuta la madre per la ben levata, quella ne voleva conto e ragione che le avevano dato un allocco senza denti per il pan fresco, e il ben di Dio non sapeva neppure di dove incominciarlo.
– O la bella sorte che m’avete data, che son più sana di prima e il marito l’ho per cacciare le mosche e non per saziarsi dalla grazia di Dio che ho addosso, e mi preme che qualcuno se l’abbia!
La madre non voleva crederci dalla meraviglia, e tiratesi lui in disparte che faceva il minchione, lo andava tastando della passata, e se non aveva denti per quell’erba, perché dunque aveva cercato pastura?
E lui:
– Gnornò, che i denti ce l’ho, ma non so di dove prendere.
Quella allora, gridando da una parte alla figlia che i denti c’erano e non stesse in pena, dall’altra gli andava spiegando il modo e la maniera, che lo doveva saper da sé, così lungo e grosso com’era; ma lui scrollava le spalle che ci s’imbrogliava. E lei:
– O non lo sapete come fa il gallo con la gallina? e così fate voi.
– Gnorsì, che lo so: chicchiricchì, cuccuruccù.
Visto dunque ch’era tempo perso e la figliola di là diceva che lo voleva a prova e pratico come era l’usanza, e lui di qua che non l’intendeva mai, stizzita se lo tirò sul letto per insegnarglielo lei ch’era antica e prode e ardeva che l’apprendesse.
– Venite qua, con me non sgarrate e dopo la prima non ve lo scordate più.
E il riesano l’apprese cosi bene, che fu la delizia della figlia e della ma’.
***
L’Angelo Gabriele
II priore di San Mauro, gli piaceva l’erbetta delle valli; e quando poteva arrivarci, bizzoche e praticanti, ci si buttava di lena, senza domandar licenza ai superiori.
Una volta gli capitò tra mano una bizzoca di pel novello, che Mariagrazia era di nome e di fatto; e assestò il battaglio alla campana.
Una sera ch’era a cavallo pei fatti suoi, alla chiesa suonò l’Avemaria. Disceso, si fece lesto il segno della croce, e incominciò:
– Ave, Mariagrazia prena… E quella, tastandosi la pancia:
– Se è, vostra è la prodezza, Angelo Gabriele; e vedetevela voi con lo Spirito Santo!
***
L’adernese
L’adernese, da zitella, tanti ne aveva infornati che non si contavano più; e per l’uso, quello era forno che c’entrava il priore con tutta la mitria.
Intanto passava per schietta strettissima, e il palagonese, un dì che la vide alla fiera, la volle per zita. Arrivati alle nozze, come fu l’ora si misero a letto, e il marito partì per il fatto suo, che pareva un uccellino nella pignatta.
Quella, che in tanto largo certo non se lo sentiva, gli andava facendo:
– Ditemi, marito mio, c’è dentro o non c’è? E lui, soffiando come un ciuco in salita.
– C’è, per Santa Febronia, con tutta la radica!
E quella subito, come fosse la prima volta, con lagni e spaventi: – Ahi, ahi, marito mio, che male mi fate! Andateci piano, che già il velo m’avete stracciato.
***
CI-CVI
***
Il mezzo pane
II villarosano quando vedeva il lavoro gli sparava di lontano; e la moglie mangiava fette di fame, che c’ingrassava a occhio, vedendo.
Quella, meschina, cercava di raddrizzarlo; ma era tempo perso, che se la spassava invece tutto il giorno alla taverna, coi compagni dell’arte sua.
Una sera fra l’altre, tornò a casa col vino alle nasche; e come la moglie cominciava la solita storia, che la fame gli usciva dagli occhi, ei si tolse la cinghia, e quella zitta per non ricevere invece il companatico.
Andati a letto, il villarosano se la sentì venire, e partì per il fatto suo; ma la moglie, ch’era sdegnata e aveva i fianchi lenti dal digiuno, lo respingeva e gli sgusciava di sotto; e gli faceva:
– Levatevi di qua, malcristiano che siete! Non mi date pane, e poi vi frulla cotesto?
E lui:
– O non lo sapete che questo è mezzo pane, locca che siete?
***
Il piazzese
II piazzese cacciava le mosche in piazza; e come vide il compare gli fece:
– Ahbo’, compare, andiamo a bere, e ucciso chi si pente.
E il compare, ch’era duro e piazzese anche lui:
– Mai, che non è mio stile bere in due; e quando ho sete bevo solo, ch’è meglio senza compagnia.
Quello lo prese per le braccia, e lo pregava come un santo:
– Venite, ahbo’, che la piglio a offesa grande e mi lagno; e per castigo non bevo più fin che campo.
L’altro, credendoci davvero, stava per cuocersi, che voleva proprio cotesto; e si lasciava tirare per la punta del giubbone, come un ciuco alla fiera:
– Ahbo’, compare mio, che non voglio darvi fastidio!
E il piazzese:
– Che fastidio è cotesto fra noi piazzesi! Andiamo, vi dico, che ha da esser così.
– E se ha da esser così, andiamo pure, e ucciso chi si pente.
Si misero a braccetto, e la prima taverna s’infilarono dentro come due pesci in mare; e ahbo’ tu ahbo’ io s’asciugarono un barile di vino.
Venuto il momento di pagare, il piazzese che come al solito era senza un grano addosso, pulendosi la bocca si voltò al compare e gli fece:
– E ora, compare mio, pagate.
Quello, ch’era più piazzese di lui, se lo prese il diavolo:
– Ahbo’, che siate ucciso, prima m’invitate e poi volete che paghi io?
E il piazzese, con sdegno:
– Come, ahbo’? v’ho pregato più d’un santo, e ora vi rifiutate a cotesta miseria? Una cosa l’uno, compare mio: io ho fatto l’invito e voi lo pagate, e così non c’è offesa per nessuno.
***
Il palermitano
II palermitano, per bere non avea nessuno davanti ; e quando entrava alla taverna, allora era sazio che gli arrivava alle nasche.
Una sera, che ne aveva nelle budella un fiume intero, uscì più ’mbriaco del solito, e ballando la tarantella se ne andava a piacere dei piedi in cerca della sua casa, che non si ricordava più dove l’avesse lasciata.
Camminò quanto parve a lui, un passo avanti e due indietro, e finalmente non potendo più reggersi cadde a terra quant’era lungo; e gorgogliando e ruttando natava con le mani e i piedi come fosse a mare, che c’era abituato.
A un punto, si trovò a passare di là un zoccolante, e vedendolo a quel modo alzò le mani con sdegno, esclamò in lingua di messale:
– O tempera, o mores!
E quello, senza scomporsi:
– Muoio, ma non lo tempero!
***
Il piazzese
Il piazzese con un pane intero davanti e una forma di ricotta, tagliava fette e mangiava, come un piazzese che era.
Intanto il gatto, ch’era più affamato di lui, gli girava intorno facendo miao miao e con la zampa lo tirava per il giubbone, ma egli non se ne dava per inteso, come se il fatto non fosse suo.
La madre, ch’era là davanti, infastidita da tutti quei miao, gli fece a un punto:
– Ma che ti casca la mano, se gli dai un boccone di pane o una crosta di ricotta al gatto?
– O forse che lui ha parlato? – rispose quello con la bocca piena.
– O non lo senti che è un’ora che fa miao miao?
E lui, gettandogli una briciola di pane:
– Ahbo’, quando s’è detto a Piazza che miao miao vuoi dire pane e ricotta?
***
La mancanzella
II nicosiano era gelosissimo dell’onor suo, e quando s’allontanava dal paese per andare al monte alle sue faccende, diceva alla moglie:
– Moglie mia, non mi fate mancanza, mentre non ci sono, che al ritorno lo so, e ne voglio ragione.
Quella giurava che non era cosa sua, e stesse sicuro e contento senza pensarci neppure, che il pane che aveva in casa le bastava; ma ogni volta il tempo perduto le cuoceva, e temendo che per l’ozio non le si arrugginisse, un giorno se la fece col compare.
Quando il marito tornò, subito altra cura non ebbero parenti e vicini che di farglielo sapere; e lui se lo prese il diavolo, e stringendo la moglie in un pugno ne voleva cento e una ragione.
E quella:
– O che volete, marito mio? Tutti facciamo le mancanzelle: non ci pensate quando voi perdeste il falcetto comprato nuovo nuovo alla fiera, e io non vi dissi nulla e ve la perdonai?
***
La caropipana
La caropipana aveva un petto quanto l’altar maggiore, e ogni minna come una ciaramella, che riempiva la casa e ci poteva allattare una pariglia di ciuchi.
Or quando trovò il figliuolino, bello pasciuto come un angiolo, dinanzi a tutti nella strada, in chiesa o alla piazza, tirava fuori quell’abbeveratoio col cannello, che pareva il mondo che ha Gesù Bambino nella mano, e glielo dava a succhiare. Le donne a farsi la croce, e gli uomini che se la godevano, a mirar quella grazia di Dio che faceva venir la tentazione.
Quella, fresca senza rossore, come facesse vedere una zucca o non fosse carne sua.
Sua ma’ non ne poteva più, e una volta che la metteva tutta fuori, la benedica, gli disse:
– Ma che pulizia è cotesta, di sbattere la minna sul muso a chi non vuole, che pare una botte? Non lo sai come si dà, con grazia e decoro, che basta metterne fuori un pezzettino e sopra la mano a coprirla?
E quella, come una rosa:
– O che fa, me la rubano? Sempre mia resta.
***